Leggendo un libro di don Gnocchi, oggi mi fermo un po’ su queste
sue parole:
«Un giorno a Slobin in Russia Bianca,
misurai quanto grande e prezioso sia il dono di un altare e di un rito. Come quando
si arrivava in un paese abbandonato dal nemico o conquistato combattendo, il
nostro comando dette tosto alla popolazione il consenso di riaprire al culto la
chiesa ortodossa (le chiese che il bolscevismo aveva trasformato in granai del
popolo, in locali di divertimento o di adunanze popolari). E, in poche ore,
donne, vecchi, bambini, con fervore quasi frenetico, riportarono la chiesa al
suo stato antico. Paramenti sacri, calici, messali e icone balzarono fuor da
dove Dio solo sa. E, con essi, il vecchio pope.
Quello di Slobin era un vecchio
venerando e disfatto dagli anni e dalle sofferenze. Tornava al suo altare dopo
molti anni di lavori forzati, sofferti per la sua professione religiosa. Ma non
aveva vino per celebrare la messa.
Venne da me ripetutamente e con così
toccante insistenza e animosa umiltà che finii per cedere, contro le
disposizioni in materia. Levò allora dalla tonaca stinta due piccole bottiglie
con mano tremante e arrossendo di commozione repressa. Quando gliele restituii,
le prese avidamente, le riguardò incredulo e le ripose dopo averle baciate
intensamente. Piangeva silenziosamente con un pianto di bambino troppo felice…»
(don Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, BUR, p. 34).
Come dovrei essere grato ogni mattina trovando il pane, confezionato
dalle mani amorevoli delle Suore di clausura, e il vino pronti in sacrestia:
devo solo portarli sull’altare e tutto è pronto per celebrare la Messa! Forse
mi può capitare di dare per scontato tutto questo, e allora arrivano
provvidenziali le parole di don Carlo e il bacio del vecchio pope.
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