«Dicono che il Natale sia la giornata più
religiosa.
È vero. Perché si può anche non vedere il
Natale; non ricordare o ricordare a nostro modo ciò che ci piace; fare l’albero
o il presepio con o senza il Bambino o con un Bambino di carta, di legno, di
celluloide, con un Bambino che pare una bambola per i sentimentali, un mito per
gli uomini forti.
Che l’incanto del Natale rimanga, per carità,
che il pur tenue filo di poesia o di fede o di bontà rimanga! Io non voglio
tagliarlo; sarei un sacrilego. Ma se penso che a forza di mettere insieme
Gesubambini di cartapesta non vediamo più i bambini di carne; che possiamo far
patire la fame a non so quanti milioni di bambini, quasi fossero di cartapesta
anch’essi; che possiamo sparare, buttare giù bombe di due, quattro tonnellate,
perché gli uomini sono di cartapesta; minacciare l’uso dell’atomica, perché gli
uomini sono materiale umano; allora, io mi chiedo se è buona cosa questo
incantamento che ci procuriamo per distaccarci il cuore di carne dal cuore di
carne del Natale.
«E il Verbo si è fatto carne».
Una Parola che è tutto, per essere
riconosciuta, ritrovata e adorata dall’uomo, chiede di farsi uomo, ha bisogno
di farsi carne.
Molti trovano più comodo contemplare il
Verbo, invece di soccorrere, baciare, adorare il Verbo fatto carne in ogni
povera carne.
Ed ecco che questo Bambino nasce ogni giorno
in una grotta di Cutro o di Melissa, in uno scantinato di Roma o di Milano,
sotto i bombardamenti di Corea…
Lì dobbiamo fare il presepio, lì
inginocchiarci, lì cantare la ninnananna, mentre fuori crepita il mitra,
scoppia la bomba, e c’è la fame, l’agguato, la donna perduta, l’emarginato, il
senza-casa, il ladro…
[…] Comincio a intravvedere le abissali
proporzioni del mio presepio, la novità senza fine di una religione, che questa
notte mi mette in ascolto del lamento di ogni creatura, la quale ha diritto di
venire consolata in Colui che viene» (da “Un Bambino piange” (1959), di don
Primo Mazzolari, in Il Natale, ed. La
locusta, Vicenza).
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