… A questo punto
potrà forse risultare opportuno ascoltare un racconto ebraico, riportatoci da
Martin Buber, nel quale il dilemma dell’esistenza umana sopra enunciato affiora
in tutta la sua evidenza.
«Uno degli
illuministi, uomo assai erudito che aveva sentito parlare del rabbi di Berditchev, andò a fargli
visita, per disputare come il suo solito anche con lui, nell’intento di fare
scempio delle retrive prove da lui apportate per dimostrare la verità della sua
fede. Entrando nella stanza dello Zaddik, lo vide passeggiare innanzi e
indietro con un libro in mano, immerso in profonda meditazione. Il saggio non
prestò alcuna attenzione al visitatore. Finalmente si arrestò, lo guardò di
sfuggita, e sbottò fuori a dire: “Chissà, forse è proprio vero”. L’erudito
chiamò invano a raccolta tutto il suo orgoglio: gli tremavano le ginocchia,
tanto era imponente lo Zaddik da vedere, tanto tremenda la sua sentenza da
udire. Il rabbino Levi Jizchak si volse però completamente a lui, rivolgendogli
in tutta calma le seguenti parole: “Figlio mio, i grandi della Torah, con i quali tu hai polemizzato,
hanno sciupato inutilmente le loro parole con te; quando te ne sei andato, ci
hai riso sopra. Essi non sono stati in grado di porgerti Dio e il suo regno;
ora, neppur io sono in grado di farlo. Ma pensaci, figlio mio, perché forse è
vero”. L’illuminista fece appello a tutte le sue energie interiori, per
ribattere; ma quel tremendo ‘forse’, che risuonava ripetutamente scandito ai
suoi orecchi, aveva spezzato ogni sua velleità di opposizione» (M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti,
Milano 1979, 273).
Penso che qui – nonostante la stranezza della veste
esteriore – sia descritta con molta precisione la situazione dell’uomo di
fronte al problema di Dio. Nessuno è in grado di porgere agli altri Dio e il
suo regno, nemmeno il credente a se stesso. Ma per quanto da ciò possa sentirsi
giustificata anche l’incredulità, a essa resta sempre appiccicata addosso
l’inquietudine del «forse però è vero». Il ‘forse’ è l’ineluttabile tentazione
alla quale l’uomo non può assolutamente sottrarsi, nella quale anche rifiutando
la fede egli deve sperimentarne l’irrefutabilità. In altri termini: tanto il
credente quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede,
sempre che non cerchino di sfuggire a se stessi e alla verità della loro
esistenza. Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede;
per l’uno la fede si rende presente contro
il dubbio, per l’altro attraverso il
dubbio e sotto forma di dubbio. È la
struttura fondamentale del destino umano poter trovare la dimensione definitiva
dell’esistenza unicamente in questa interminabile rivalità fra dubbio e fede,
fra tentazione e certezza. E chissà mai che proprio il dubbio, il quale
preserva tanto l’uno quanto l’altro dalla chiusura nel proprio isolazionismo,
non divenga il luogo della comunicazione. Esso, infatti, impedisce ad ambedue
gli interlocutori di barricarsi completamente in se stessi, portando il
credente a rompere il ghiaccio col dubbioso e il dubbioso ad aprirsi col
credente; per il primo rappresenta una partecipazione al destino
dell’incredulo, per il secondo una forma sotto cui la fede resta – nonostante
tutto – una provocazione permanente. [J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana,
Brescia, 38-39]
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