«Signore, non ho nessuno che mi immerga
nella piscina quando l’acqua si agita» (Gv 5,7).
Sto leggendo il Vangelo di Giovanni
quando incontro queste parole di un paralitico che mi sconvolgono la mattinata.
Prendo coscienza di botto che quel nessuno sono proprio io.
Io che, dall’alto della mia scontata
salute fisica, non ho occhio per un uomo paralizzato.
Io che potrei fare il bene… e me ne
guardo bene.
Io che potrei dare una mano a qualcuno, ma
per paura che mi rallenti, passo a largo o mi dileguo in fretta.
«Vuoi guarire?», gli aveva chiesto Gesù.
«Signore, non ho nessuno…», fu la
risposta dell’ammalato.
Più della paralisi è la possibilità di
questa solitudine a farmi paura.
Potrei ammalarmi, aver bisogno di cure, non
essere più autosufficiente; potrei diventare incapace di muovermi e di comunicare
con il mondo esterno; potrei perdere la testa e non capire più niente,…
Mi basta pensarci per un momento e già sento
arrivare l’angoscia!
Eppure, più di tutto quello che potrebbe
capitarmi, mi fa paura la possibilità reale di dire: «Signore, non ho nessuno».
Visitando le famiglie il primo venerdì
di ogni mese, o in occasione delle benedizioni pasquali, ho la possibilità di
incontrare le persone nel loro ambiente quotidiano e rimango edificato da
testimonianze di prossimità a persone malate o bisognose di tutto. Incontro uomini
e donne che, nel nascondimento delle loro case, perdono la vita per il bene
dell’altro e sono capaci di una tenerezza straordinaria!
Anche se l’altro è ormai incapace di
riconoscerle, esse gli restano accanto. Imparano un nuovo linguaggio fatto di
carezze, attenzioni, strette di mano, sorrisi, sguardi.
Avverto qualcosa di sacro in quelle
case, avverto chiara la presenza di Gesù. Lo riconosco vicino all’ammalato, poi
lo vedo nella persona dell’ammalato, ma anche nel barelliere, nel suo angelo
custode, nell’amorevole badante.
Mi rendo conto che la vera malattia, la
vera sofferenza è quella sensazione d’esser soli e abbandonati davanti a un
nemico troppo grande; è la paura di non avere alleati, compagni di battaglia
verso cui poter volgere uno sguardo d’intesa, prima di balzare fuori dalla
trincea per l’ultimo assalto.
La vera malattia si chiama solitudine,
si chiama indifferenza.
Ed è una malattia che si vince solo
avvicinandoci ai fratelli, solo sforzandoci di restare accanto all’amico nel
momento della prova.
Scopriremo, così, d’essere sostenuti
dalla forza di Dio; ci accorgeremo che, pur non essendo medici, abbiamo da
offrire la medicina che vince ogni morte: l’amore. «L’amore guarisce», diceva
il santo medico Giuseppe Moscati.
Mentre scrivo, mi vengono in mente le
parole di un bellissimo prefazio:
«è
veramente giusto lodarti e ringraziarti, Padre santo, Dio onnipotente ed
eterno, in ogni momento della nostra vita, nella salute e nella malattia, nella
sofferenza e nella gioia, per Cristo tuo servo e nostro Redentore.
Nella sua vita mortale egli passò
beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancora oggi
come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello
spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della
speranza. Per questo dono della tua grazia, anche la notte del dolore si apre
alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto. E noi, insieme agli
angeli e ai santi, cantiamo con voce unanime l’inno della tua gloria…»
(Prefazio comune VIII).
Gesù sta lì, vicino a quell’uomo, prigioniero
da trentotto anni.
Gli rivolge la parola e riaccende in lui
il desiderio di una condizione diversa: «Vuoi guarire?» (Gv 5,6).
Forse il paralitico si sarà chiesto che
cosa potesse ancora significare per lui guarire.
Forse dopo trentotto anni di malattia, si era rassegnato a doversi accontentare
di quel minimo che gli veniva riconosciuto da chi gli stava intorno.
Forse, dopo svariati tentativi inutili,
non trovava più la voglia di provare a rialzarsi: «C’è sempre qualcuno che scende nella piscina prima di me».
E mentre stai fermo a guardare
quell’acqua che s’agita, lì davanti, a portata di mano… e fai i conti con la
tristezza di vederla vicina e di non poterla raggiungere… Mentre piano piano
viene meno il desiderio di una guarigione che, col passare del tempo, appare
sempre meno probabile… Quando ti fermi e non attendi più nulla...
…lì ti incontra Gesù.
Cerca proprio te e risveglia i tuoi bei
sogni, quelli che le circostanze della vita ti avevano rapinato. Ti fa una
domanda e ti ricordi che volevi guarire, che hai provato a guarire, ma poi ti
sei seduto, non ti sei lasciato curare, non sei stato aiutato, non hai più
cercato aiuto,…
Ora mi riconosco nel paralitico.
C’è voluto tutto quello che ho scritto
prima, per arrivare a questa conclusione.
Sono io quel malato che s’è chiuso, che
ha rinunciato ad affrontare le salite, che s’è scoraggiato, che ha perso la
direzione e aspetta d’esser preso in braccio e portato. Sono io che ho bisogno
dell’olio della consolazione e del vino della speranza.
Una volta che tu, Gesù, li avrai versati
sulle mie ferite, sarò capace di guardare l’altro con misericordia e di fargli
misericordia.
Poi, sarà lo slancio del Vangelo a darmi
il coraggio di farmi prossimo e la forza per sollevare ogni paralitico e
portarlo a incontrare Te, che mi hai guarito (Mc 2,1-12)!
don Gian Luca Rosati
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