In una partita di calcio, se si parla di
ultimo uomo è perché un giocatore per
difendere la propria porta dall’attaccante avversario, ha commesso un fallo ed
è stato espulso.
Chissà se anche fuori dallo stadio si
può essere l’ultimo uomo, quello che,
in pochissimo tempo, deve risolvere da solo una situazione critica?
Nella maggior parte dei casi, abbiamo
semplicemente la sensazione di essere l’ultimo
uomo. Ma se non ci difendiamo da questa sensazione, alla fine diventerà una
convinzione e ci troveremo a vivere in continuo stato di emergenza.
Noi cristiani non siamo mai soli e,
quindi, non siamo mai realmente l’ultimo
uomo.
Allora, perché anche noi cristiani ci
comportiamo come se lo fossimo?
Spesso siamo impazienti e pretendiamo di
trovare soluzioni rapide o formule che ci facciano uscire con un click dall’emergenza, preferibilmente senza
sacrificio, senza perderci il sonno, senza metterci il cuore, senza
coinvolgerci più di tanto, senza una reale passione, senza una gradualità.
È pericoloso ragionare da ultimo uomo; significa procedere di
emergenza in emergenza, di crisi in crisi, di problema in problema, senza
prendersi il tempo giusto per elaborare una valida strategia. Significa
lasciare che la squadra continui la partita in inferiorità numerica: l’attacco
viene temporaneamente neutralizzato, ma tornerà a proporsi e bisognerà
fronteggiarlo con un uomo in meno …
Sempre più spesso mi ritrovo a
combattere con la tentazione di sentirmi l’ultimo
uomo e vado in affanno, schiacciato dal peso di problemi che sarebbe meglio
portare insieme a tutta la squadra. La vista si confonde a tal punto che persino
un falsopiano mi sembra una ripida salita, impossibile da scalare.
Noi preti, soprattutto, non siamo l’ultimo uomo, anche se le situazioni che
viviamo possono spingerci a pensare diversamente; anche se l’idea di essere l’ultimo uomo può lusingarci, perché ci fa
sentire importanti, indispensabili, unici.
Se impariamo a custodire il tempo per la
preghiera e la riflessione personale, se proviamo a stare un po’ in silenzio,
se scacciamo il pensiero che tutto dipende da noi, ci accorgiamo che non siamo
soli: insieme a noi c’è Gesù, ci sono i confratelli nel sacerdozio, c’è una
comunità parrocchiale, c’è la possibilità di una relazione vera col prossimo.
Una relazione che non ci dà l’illusione di aver risolto il problema, ma ci fa
incamminare sulla via che, giorno per giorno, ci porterà ad affrontarlo meglio.
[dGL]
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