venerdì 3 aprile 2015

Con gli occhi di Pietro…

Ogni cosa era pronta perché si cominciasse con le preghiere rituali e la cena.
Ma non appena tutti ci eravamo seduti al nostro posto, Gesù si alzò.

Non era chi presiedeva il pasto a doversi alzare se mancava qualcosa, e noi facemmo come per disporci a rendere il servizio per il quale Egli si era alzato.

Pieni di stupore, Lo vedemmo deporre le vesti, e ancora più meravigliati, Lo vedemmo cingersi di un asciugamano, prendere un catino, riempirlo d’acqua e mettersi a fare il giro della tavolata per lavare i piedi a ciascuno di noi, asciugandoli con l’asciugamano. Lo faceva con una strana concentrazione. I suoi gesti erano lenti e calibrati. Mostrava grande attenzione nel lavare i piedi dalla polvere della strada, e con la stessa cura li asciugava.

Noi Lo fissavamo quasi impietriti, e poi nervosamente ci guardavamo gli uni gli altri. Non sapevamo come reagire, come interpretare tutto questo. Lasciavamo fare perché non capivamo. Ognuno attendeva dagli altri una reazione, senza avere il coraggio di prendere l’iniziativa per primo.

Io sentivo gli occhi degli altri concentrarsi su di me man mano che Gesù mi si avvicinava.

Era già in ginocchio davanti a me e si preparava a immergere il mio piede nel catino. D’istinto mi ritrassi: «Signore, tu lavi i piedi a me?» (Gv 13,6).

Mi aspettavo da Lui una risposta vivace; forse la desideravo perché mi aveva sempre amato con correzioni severe. Ma il Suo volto, mentre stava in ginocchio ai miei piedi, manifestava l’espressione di calma e di tristezza che aveva avuto fin dall’inizio di quella cena pasquale. La Sua estrema dolcezza mi sbalordì: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo. Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13,7-8).

Mi resi conto di non aver mai lavato i piedi del mio Maestro; non ci avevo mai pensato, eppure avrei potuto farlo. Avevo sempre rispettato le usanze: erano i servi e le donne a svolgere questo compito. Ora era troppo tardi; era stato il Maestro a desiderare di lavarmi i piedi, non viceversa. Gesù non aveva bisogno che io gli lavassi i piedi. Io sì.

Improvvisamente fui preso dalla stessa sensazione di indegnità che avevo provato dopo la pesca miracolosa, quando avevo gridato: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!» (Lc 5,8). Ma quella volta avevo visto la potenza del mio Maestro, ora invece lo vedevo farsi servo, l’ultimo dei servi!

Che voleva dire la sua mitezza, la sua umiltà?
Mi resi conto che Gesù era così, che Gesù era questo, che nel corso dei tre anni vissuti insieme, Gesù non era mai stato altro che questo: un servo umile ai piedi degli uomini, e ai miei.

Avevo sempre fissato la mia attenzione sulla sua potenza, sulla sua maestà, sulla sua gloria confermata dai miracoli. Mi chiedevo perché Gesù non sfruttasse meglio i suoi poteri, perché si nascondesse dopo i miracoli; perché chiedesse di tacerli, di non divulgarli.

Non capivo il perché, ma intuivo, con un’ombra di terrore, che Gesù era questo. Ero come sospeso sull’orlo di un abisso. Finora mi ero sentito in cammino verso un destino di potenza e di vittoria; seguire Gesù era per me come salire su una montagna: sapevo che prima o poi ci sarebbe stata una vetta.

Di colpo compresi che il destino che Gesù  mi offriva non era un traguardo di gloria, ma un abisso di umile amore di cui non vedevo il fondo. Sentii allora un enorme desiderio di gettarmici con tutta la mia persona: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!» (Gv 13,9).

[Giovedì Santo 2015 – rielaborazione personale di un testo tratto da Simone chiamato Pietro di Mauro Giuseppe Lepori]

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