venerdì 17 novembre 2017

Testimoni di una parola più forte di qualsiasi spada

«Una spada se ne stava nell’angolo di una stanza. La superficie lucente della lama d’acciaio, toccata dal raggio del sole, brillava d’un bagliore rossastro. Con fierezza la spada si guardò intorno; vide che tutto si pasceva del suo splendore. Tutto? Eppure no! Là sul tavolo, appoggiata inoperosa a un calamaio, c’era una penna, a cui non passava neanche per la mente di inchinarsi davanti alla maestà scintillante di quell’arma. La spada si indispettì e incominciò dunque a parlare…» (da R. M. Rilke, I racconti, Guanda, p. 9).

Inizia così un gustoso dialogo tra “penna e spada” che mi porta a riflettere sulla facilità con cui oggi si maneggiano armi e si tirano pugni. Sarà forse perché abbiamo dimenticato la penna? Non intendo con questo squalificare pc, tablet e strumenti vari, ma denunciare il progressivo abbandono della parola, del dialogo, della trattativa non violenta, del rispetto dell’altro,… dell’amore per la pace!

Nel racconto di Rainer Maria Rilke, una penna ha il coraggio di non inchinarsi davanti alla spada; questo atteggiamento della penna non è dovuto a spavalderia, ma alla coscienza del suo valore. Il dialogo vede addirittura la penna proporre una sfida alla spada:

«Vorresti proporre a me una scommessa?» rise insolente la spada.
«Purché ti arrischi ad accettarla.»
«Eccome se l’accetto!»
«Cosa scommettiamo?»
La penna si tirò su, assunse un contegno rigido e grave e cominciò: «Scommettiamo che se voglio sono capace di impedirti di andare al tuo lavoro, in battaglia?»
«Oh, oh, suona proprio audace!»
«Siamo d’accordo?»
«Accetto»
«Bene» disse la penna. «Stiamo a vedere» (da R. M. Rilke, I racconti, Guanda, p. 10).

La sfida mi fa tornare in mente un film sulla storia di una campionessa di scacchi ugandese. Nel film il gioco degli scacchi viene proposto ai ragazzi poveri dal coach come un’occasione di riscatto. Non ci sono armi, né violenza: tutto si svolge su una scacchiera, ma chi guarda il film si accorge che per i protagonisti non si tratta solo di un gioco. Una bambina, spiegando come un pedone durante la partita può diventare regina se riesce ad arrivare in fondo alla scacchiera, dice alla compagna di gioco: «Negli scacchi il piccolo ha la possibilità di diventare grande e questo mi piace».

Noi adulti, proprio come quel coach, dovremmo acquisire la capacità di mostrare ai nostri piccoli vie di crescita, possibilità di riscatto; dovremmo trovare il modo di testimoniare il valore dei gesti virtuosi, che non producono un profitto materiale, ma fanno tanto bene a chi li compie e a chi li riceve.

Anche l’istruzione scolastica rischia di essere vista in funzione di un immediato impiego e le parole che si imparano sono solo quelle strettamente necessarie. A che serve leggere libri, quando quello di cui c’è bisogno è a portata di click?
Si procede per abbreviazioni e ci si accontenta di informazioni parziali. E guai ad approfondire le questioni o a verificare le fonti di informazione, perché “approfondire” e “verificare” sono percepiti come sinonimi di “perdere tempo”. Invece, bisogna sbrigarsi, bisogna correre, perché sbrigandosi, aumenta il tempo libero.

Così, camminando per le strade, possiamo ammirare alte montagne di tempo libero. Ma il tempo libero, quando è troppo, annoia e l’ozio resta sempre il padre dei vizi. E se le colline ben lavorate ci affascinano e ci ricordano la vocazione dell’uomo alla custodia del creato, le montagne di tempo libero ci inquietano, ci rattristano, ci fanno star male, non ci fanno dormire: scritte sui muri, cassonetti incendiati, auto danneggiate, ragazzi picchiati, persone violentate,…

Alla radio si lamenta la mancanza di allenatori di calcio che abbiano a cuore la crescita e la formazione dei giovani; si lamenta la mancanza di fantasia negli esercizi che vengono proposti ai piccoli calciatori. Ricordo il Mister dell’Unione Sportiva Folgore che ci raccomandava sempre di andare a dormire presto la sera, di condurre una vita regolata e anche di andare a messa la Domenica! Ma adesso qualcuno penserà che erano altri tempi!

I ragazzi si lamentano dell’inutilità del greco e del latino studiati a scuola. Effettivamente, dopo qualche anno, si rischia di dimenticare queste lingue, ma la capacità di ragionare, l’attenzione a scegliere, tra tante, la parola più appropriata per tradurre un’espressione e il gusto per la ricerca, acquisito spaginando per ore i dizionari, restano per sempre e si possono applicare in ogni campo, di gioco o di impiego.

Le cose belle nella vita si fanno per amore, non per guadagno. Indottrinare i nostri piccoli in modo da creare dei piccoli consumatori non è sano, non è un bel favore che gli facciamo. Aiutarli a pensare, offrire loro dei vocaboli perché possano esprimere le loro ragioni, le loro passioni, i loro sogni, e anche le loro rabbie e delusioni, tutto questo è compito di chi li ama, di chi sente forte nel cuore la passione educativa.

Il consumismo non ama i cuccioli d’uomo, il materialismo non ama i cuccioli d’uomo. Consumismo e materialismo non amano l’uomo; vogliono ridurlo a un consumatore e tutto ciò che riduce l’uomo, non è per il bene dell’uomo! Noi siamo uomini, non consumatori!

È inutile oggi parlare di bullismo, se non si offrono alla vittima le parole e il coraggio per denunciare, ma anche per perdonare.
È inutile oggi parlare di bullismo, se non si offrono al bullo le parole per ammettere le sue colpe, dire la verità, chiedere perdono e provare a cambiare.

Limitarsi a condannare e a mettere in punizione, continuando a dividere i ragazzi in “buoni e cattivi”, “educati e maleducati”, “giusti e sbagliati”, “santi e peccatori”, significa anestetizzare la nostra coscienza perché non ci ricordi le nostre responsabilità di adulti nei confronti dei più piccoli.

Mi piacerebbe che a scuola si leggesse questo racconto di penna e spada.
Mi piacerebbe che Rilke e altri suoi colleghi, maestri d’umanità e di buoni pensieri, tornassero a parlare a figli e genitori! [dGL]

Ps: Stavo dimenticando la parte finale del racconto…

«Erano passati pochi minuti dalla conclusione della scommessa, quando fece ingresso un giovane in una preziosa cotta d’arme e, afferrata la spada, la allacciò al fianco. Quindi contemplò compiaciuto la lama folgorante. Fuori risuonavano squilli di tromba, rulli di tamburo… si andava in battaglia. Il giovane stava per abbandonare la stanza quando entrò un uomo che, a giudicare dai ricchi fregi, doveva occupare un’alta posizione. Il giovane gli fece un inchino profondo. Il dignitario si era frattanto avvicinato al tavolo, aveva preso la penna e scritto in fretta qualcosa. «Il trattato di pace è già firmato» disse sorridendo. Il giovane ripose la spada nell’angolo ed entrambi lasciarono la stanza.
Ma sul tavolo era posata la penna. Il raggio di sole giocava con lei e il metallo inumidito riluceva splendente.
«Non ti appresti alla battaglia, mia cara spada?» chiese sorridendo. Ma la spada rimase silenziosa nell’angolo buio. Credo che abbia smesso di darsi arie» (da R. M. Rilke, I racconti, Guanda, p. 11).

[Il racconto nella sua versione integrale – qui ho riportato solo alcune parti necessarie alla trattazione – potete leggerlo in R. M. Rilke, I racconti, Guanda]

mercoledì 15 novembre 2017

Edizione straordinaria


Il giorno dopo, le prime pagine dei giornali erano dedicate all’episodio accaduto durante l’inaugurazione del grande presepe allestito nella piazza principale della città.
Don Marco era stato testimone oculare dei fatti perché, come ogni anno, insieme al Sindaco e a molti cittadini, aveva partecipato al momento di festa e aveva benedetto il presepe prima dell’accensione ad opera del bambino più piccolo della città. Ma quello che era accaduto dopo, nessuno avrebbe potuto prevederlo: né le persone che avevano studiato il progetto, né i falegnami, che giorno e notte avevano lavorato per costruire l’ambientazione, né le sarte che avevano confezionato i vestiti per le grandi statue di cartapesta, né tutti gli altri che avevano collaborato in vario modo. I più stupiti di tutti, però, furono gli elettricisti.

Come prevede la tradizione, il pomeriggio dell’ultima Domenica di Avvento è iniziato con il concerto della Banda cittadina. Poi è stata la volta dei bambini della scuola, che hanno eseguito canti natalizi accompagnati da maestre, maestri e genitori. Infine, il Sindaco ha ringraziato l’Associazione che ha curato la realizzazione del presepe e ha passato il microfono al parroco. Don Marco ha colto l’occasione per esprimere la sua gioia per il Natale ormai prossimo, e la sua meraviglia nel vedere come la generosità di tante persone aveva prodotto un risultato davvero straordinario. Dopo aver incoraggiato i presenti a vivere le feste natalizie in uno spirito di solidarietà, condivisione e attenzione al prossimo, il parroco ha effettuato la benedizione. Quindi si sono avvicinati i genitori con il neonato per accendere le luci del presepe.

Il tasto di accensione viene premuto. La scena si illumina mentre un uomo si avvicina per scoprire il bambinello. È allora che da più parti iniziano forti esclamazioni di stupore: la mangiatoia è vuota. Giuseppe, Maria, il bue, l’asinello e i pastori fissano con grande attenzione la bella paglia sistemata per l’occasione. Gli elettricisti iniziano a sbracciarsi per far notare al Sindaco che la sera prima sulla piazza c’era molta più luce. Vengono passati in rassegna i faretti, ma risultano tutti accesi. Le statue meccanizzate funzionano e sono tutte concentrate nella ripetizione dei loro movimenti: il clamore che c’è attorno sembra non averle minimamente sfiorate.
Qualche istante dopo, don Marco si accorge che nel presepe manca la stella cometa. Gli elettricisti assicurano che fino all’ora di pranzo la stella era al suo posto e adesso nessuno sa spiegarsi cosa sia potuto succedere nel frattempo: era posizionata sopra la capanna, in un punto molto difficile da raggiungere; era impossibile spostarla.
Don Marco cammina con il Sindaco e si avvicina alle statue dei Magi. È da quella posizione, leggermente decentrata, che i due notano una luce fortissima in lontananza. Sembra provenire dal tetto della casa di riposo per gli anziani sulla vicina collina. La luce è intensa e i tecnici comunali, interrogati, non sanno cosa rispondere: è troppo forte per essere luce elettrica. Non resta che mettersi in marcia, proprio come i Magi tanti anni fa.
Il Sindaco e il Parroco aprono la fila dell’insolita processione e, seguiti da una folla di devoti, ma anche di curiosi, si avviano verso la luce. La banda suona musiche natalizie mentre il corteo si avvicina all’ospizio.
All’ingresso la Caposala sembra sconvolta: non riesce a spegnere le luci. È ora di dormire, ma i corridoi e le stanze sono illuminati a giorno: anziani e ammalati vagano per la struttura. Vedendo il Sindaco e don Marco, chiede loro: «E voi? Che ci fate qui stasera?». I due si guardano e le rispondono: «Cerchiamo il bambino: abbiamo visto brillare la sua stella!». La Caposala li osserva attentamente e si accorge che i due non stanno affatto scherzando. Allora decide di accompagnarli al piano di sopra.
Era ricoverato lì il vecchio parroco della città e i tre, con al seguito una folla di persone, pensano bene di andare prima da lui per sapere se ha notato qualcosa di particolare, o se ha qualche suggerimento che possa far luce sul mistero: gli anziani sono sempre depositari di sapienza, anche nel terzo millennio!
Nella stanza di don Giuseppe è impossibile entrare: ci sono un sacco di persone. Sono talmente tante che anche nel corridoio c’è gente in fila, ciascuno con qualcosa in mano, e ognuno aspetta composto il suo turno per entrare. La scena fa aumentare lo stupore delle persone venute da fuori: «Che cosa sta succedendo?», è la domanda che si legge sul volto di tutti.
Al vedere don Marco, il Sindaco e la Caposala, gli anziani del ricovero, con i volti luminosi di gioia, si affrettano ad aprire un varco perché possano entrare a visitare don Giuseppe. I tre, appena entrano, trovano il vecchio parroco seduto sulla sua poltrona, con in braccio il bambinello raggiante di luce; intorno ci sono persone che hanno portato dalle loro camere qualcosa da offrire al piccolo appena nato: chi una coperta, chi un dolcetto, chi un po’ di miele, chi una tazza di latte caldo, chi un fiore,… La banda inizia a suonare “Tu scendi dalle stelle” e i bambini a cantare; al piccolo coro si uniscono cittadini, Sindaco, Parroco e Caposala e la festa prende il colore della gioia, quella vera!

Eh sì, fu un Natale ben strano quello!
Un Natale che per qualche giorno fece parlare i giornali, ma per molto tempo fece cantare i cuori di tutti in città. Don Marco meditò a lungo su quanto aveva vissuto quella sera. Nessuno in città riuscì a dare una spiegazione logica all’accaduto: l’evento aveva del miracoloso.
Dopo lunghe riflessioni, don Marco arrivò alla conclusione che si era trattato di un segno e che le cose erano andate così perché nell’ospizio c’era gente che viveva nell’attesa: c’era, infatti, chi attendeva un amico, un parente, un figlio, un fiore, un dolcetto, una preghiera, un prete, la guarigione, un sorriso, una canzone, una carezza, una stretta di mano, un abbraccio,… l’Amore.
E Gesù proprio là nasce, dove viva è l’attesa.

[dGL]

venerdì 10 novembre 2017

Ci vuole passione



[catechesi ai giovanissimi di Azione Cattolica della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, 9 novembre 2017, Parrocchia Regina Pacis, Centobuchi]

Un giovane legge ai giovanissimi un racconto tratto dal libro “E la farfalla volò” di don Mario Delpini (ed. Ancora)

… E le lucciole?

Forse per il caldo, forse per l’argomento difficile, forse per la vecchiaia che si avvicina; il fatto è che l’altro giorno ero stufo di studiare. La cosa – convengo – è piuttosto grave, come fosse – che so? – un pesce che è stufo di nuotare. Io però, invece di farmi visitare da un dottore, ho pensato di ovviare alla malavoglia ingannando il tempo. Così ho inventato un amico e mi sono scritto una lettera:

Caro don Mario,
ho finalmente nascosto ben bene i tuoi libri, così da evitare la tentazione di aprirli e me la spasso in gite senza meta e senza premura su queste tranquille colline di Sormano. Il divertente è pensare che c’è gente che passa l’estate in astruse ricerche e faticosi studi!
Ora, a te che sei tanto sapiente, voglio rivolgere una difficile domanda. È un problema che mi pongo da quando ero bambino: ma le lucciole dove vanno a finire? Perché così breve è il loro apparire?
Con i miei più cordiali saluti e sincera amicizia.
Giacinto


Non è buona educazione lasciare senza risposta lettere di amici ancorché immaginari. Allora ho dovuto riprendere la penna:

Caro Giacinto,
al tuo problema potrebbe rispondere uno scienziato qualsiasi, ma sarebbe oltremodo banale, perché gli scienziati non possono lasciare spazio al sentimento, quindi non sanno distinguere tra gli animali, e sono capaci di confondere le lucciole con le zanzare, di spiegare la loro vita allo stesso modo e di ucciderle con lo stesso insetticida. Invece la vera storia delle lucciole è questa.
C’era una volta un papà che lavorava tutto il giorno per la sua famiglia; un lavoro ingrato e pericoloso: guidava i TIR su e giù per l’Europa. Naturalmente era un po’ triste perché, quando vedeva un bambino che schiamazzava contento in un giardino, non poteva evitare di pensare ai suoi figli lontani in attesa del suo ritorno; e guidava e guidava pensando: «Da qui a Colonia lavoro per Paolo, da Colonia a Rotterdam per Caterina…».
Tornava poi a casa, spesso di notte; al rombo del motore subito si accendeva una luce, e la moglie era in piedi per fargli trovare un po’ di latte caldo e un bacio innamorato.
Appena poteva entrava nella stanza dei bambini che, stanchi di aspettare, si erano ormai addormentati. Si avvicinava piano piano, cercava di indovinare i loro sogni, e deponeva un bacio sulla fronte. Senza svegliarsi, sorridevano i bambini, come di un bel sogno divenuto realtà.
C’era poi una suora di clausura che passava ore intere in preghiera e il tempo non le bastava mai: voleva offrire tutta la sua vita perché i preti fossero santi, perché nelle famiglie regnasse l’amore, perché i poveri avessero un pane.
E pregava e pregava, pensando ora all’una, ora all’altra delle grandi necessità della terra. Così intensa era la sua preghiera che raggiungeva talvolta persone lontane mille miglia e le assaliva di una gioia improvvisa, di un desiderio di fare del bene: e nessuno sapeva donde venisse.
C’era poi un ragazzo che riceveva ogni domenica qualche soldo per comprarsi un gelato. Ma da quando aveva saputo che bambini come lui morivano di fame, si era imposto di non spendere più una lira per inutili golosità. E tutte le domeniche deponeva la sua offerta in chiesa, nella cassettina per le missioni. E donava e donava, pensando ingenuamente: «Per le medicine… per il cibo… per i libri…».
Ma il bello è che succedeva proprio così: ragazzi lontani e sconosciuti ricevevano pane e cure e proprio non sapevano chi ringraziare.
C’era poi… oh, chissà quanta gente c’era ancora!
A un certo punto Gesù pensò di svelare tutti questi segreti e inventò le lucciole: prese i baci del papà, le preghiere della suora, i soldini del ragazzo, prese mille tesori nascosti e li trasformò in lucciole. Le mandò sulla terra per ricordare a chi le vede: «C’è gente che ti vuole bene, gente che soffre senza un lamento, gente che ogni giorno prepara per te doni segreti!».
Durano poco le lucciole, perché questo amore nascosto non vuole farsi pubblicità.
Sono timide e fragili le lucciole, perché compiono le loro conquiste senza prepotenza: hanno la forza invincibile e discreta dell’amore di Dio.
Piacciono ai bambini, le lucciole, perché essi sono capaci di credere nei tesori sepolti e nella generosità che non pretende riconoscenza.
Alcuni dicono che adesso le lucciole vanno scomparendo: forse perché è venuto meno l’amore; forse perché chi fa qualcosa di buono vuole subito mettersi in mostra sotto i riflettori.
Ma io penso che le lucciole non siano scomparse: solo che Gesù le ha volute tutte in paradiso.
Come tu sai, in paradiso non c’è il sole e neppure la luce elettrica: lassù è solo l’amore che rischiara e riscalda. Per questo c’è una gran luce: è l’amore immenso di Dio e migliaia e migliaia di lucciole, chissà. Forse ce n’è qualcuna che è mia, qualcuna che è tua…
Con amicizia.
Don Mario

Il racconto che abbiamo ascoltato, parla di persone appassionate alle cose che vivono.
È una passione che riescono a esprimere perché sanno chi stanno amando, per chi stanno lavorando, per chi stanno pregando, per chi stanno offrendo,…
Proprio come capita a ciascuno di noi; infatti don Mario scrive: «C’era poi… oh, chissà quanta gente c’era ancora!».

Stasera colgo l’occasione di questo incontro per ringraziarvi perché la mattina mi siete di esempio: vi incontro per le vie mentre andate a scuola e penso: «Che passione!».
Ci vuole passione per andare a scuola, ci vuole passione per fare le cose con amore: ci vuole una passione che Cristo continuamente alimenta!

Ora vorrei aiutarvi a fissare l’attenzione su una domanda, che forse da ragazzi ci veniva posta molto spesso: «Che cosa vuoi fare da grande?». Oggi potrebbe suonare così: «Per quale grande sogno stai dando la vita? Verso quale meta stai camminando?».
Non sono domande da bambini. Sono, invece, domande che fanno parte della nostra vita e ci accompagneranno sempre. Guai a metterle da parte!

E allora comincio col parlarvi delle mie passioni.

La mia passione da piccolo: fare quello che mi pare.
Sulla carta mi sembrava che non ci fosse altro da desiderare per essere felice. Ma poi, all’atto pratico, spesso le conseguenze erano ferite, punizioni, rimproveri,… Il mio stare bene, il mio fare quello che mi pare, spesso non faceva stare bene chi mi stava attorno e neppure me stesso: la soddisfazione iniziale per una marachella compiuta o per uno scherzo ben riuscito, presto lasciava il posto all’amarezza e al rimorso per il danno, piccolo o grande, che ne era seguito.

La mia passione a undici anni: poter offrire un sorriso che fosse segno di pace per me e per gli altri.
Avevo cominciato a capire che il mio bene avrebbe dovuto essere anche il bene di chi mi stava intorno.
E qui devo riconoscere che il Signore mi è stato sempre vicino e ha fatto in modo che la mia attenzione fosse attirata da persone buone, da persone virtuose. In quel periodo la domanda che guidava la mia ricerca era: «Dove trovi la gioia che ti fa sorridere?». Dovevo assolutamente scoprirlo.
Un mio compagno di scuola un giorno mi propose di fare il chierichetto in parrocchia. La mia risposta fu un «no» deciso perché ero convinto che non mi sarei sentito a mio agio sull’altare, sotto gli occhi di tutti. Poi incontrai la suora che istruiva i chierichetti e rimasi colpito dal suo sorriso e dalla sua gentilezza. Insegnò a me e ai miei fratelli a servire il Signore con gioia e non pensai più all’essere sotto gli occhi di tutti: l’importante era servire il Signore e continuare a cercare la fonte della gioia. La suora sembrava averla trovata; seguendo i suoi insegnamenti, l’avrei trovata anch’io. Andavo tutti i giorni a servire la messa, accompagnavo il parroco a benedire le case, mi rendevo disponibile per aiutare in parrocchia,… e a casa, naturalmente, mettevo il massimo impegno nello studio, perché bisognava essere coerenti.
Facevo tutto perché dovevo trovare la gioia!!!

La mia passione oggi: l’amicizia con Gesù.
Un mio amico scrisse nel suo diario:
«Ecco l’importante nella vita: aver visto una volta qualcosa, aver sentito una cosa tanto grande, tanto magnifica che ogni altra sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più» (S. Kierkegaard, Diario 1837, II A 58).

La mia passione è l’Amicizia con Gesù perché in questa Amicizia mi si è rivelato e sempre mi si rivela un amore senza misura per me, una cura, una presenza continua. È un’amicizia quella con Gesù che cambia tutto ed è in grado di rendere più luminose tutte le altre amicizie, tutte le altre esperienze che posso fare nella vita!

Vi leggo qualche versetto tratto dal Vangelo secondo Giovanni (1,35-39):
«35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?”. 39Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio».

Che cosa posso dire della mia vita? Che cosa ho fatto finora?
Mi sono semplicemente messo a seguire Gesù che avevo visto e vedo passare nella vita di tanti uomini e donne intorno a me: i miei genitori, i miei nonni, i miei fratelli, il Papa, i Vescovi, i preti, i diaconi, le suore, i missionari, i catechisti, la gente in chiesa la Domenica, i fedeli della messa feriale, i santi, gli amici e anche tutti voi che siete qui.

A un certo punto Gesù si voltò e disse: «Che cosa cercate?».
La risposta fu un’altra domanda: «Rabbì, dove dimori?».
«Venite e vedrete», disse loro Gesù.
«… e quel giorno rimasero con lui» (Gv 1,38-39)

Anch’io chiedo: «Maestro, dove abiti?».
E cioè: «Dove stai? Dove vivi? Quali sono le cose che ti interessano? Qual è il tuo stile di vita? Come trascorri le tue giornate? Cosa dà senso alle tue giornate? Perché ti impegni? Perché cammini, incontri, guarisci, perdoni, chiami, accompagni, rincuori, incoraggi, dai fiducia? Perché perdoni, hai misericordia, fai risorgere,… Perché offri la tua vita per la mia vita?».

«Venite e vedrete» è la parola che Gesù mi ha rivolto da piccolo, da adolescente, da giovane, da universitario, da seminarista e oggi è la parola che Gesù mi rivolge da prete.
Quindi anche tu, che sei un giovanissimo, ricevi questa parola, questa chiamata a stare con Lui. Resta con Lui ogni giorno iniziando la giornata con il segno della Croce, leggendo un brano del Vangelo, come hai imparato a fare durante il campo-scuola o durante un’esperienza di vita comune, pregando il Padre nostro, compiendo buone azioni per amore di Dio e dei fratelli, partecipando alla Messa domenicale, avendo cura di confessarti una volta al mese, leggendo la vita dei santi, coltivando l’amicizia con una persona di fede, che possa essere un punto di riferimento per te. E soprattutto, non stancarti di fare attenzione alle persone che ti stanno intorno e chiediti sempre: «Che cosa anima il loro agire? Per quale grande sogno stanno dando la vita? Verso quale meta camminano?».

Buon cammino con Gesù, amici!
don Gian Luca