martedì 29 dicembre 2015

Il tè

In campo c’è un’umidità pazzesca.
Eppure si gioca.

Il mister urla da bordo campo e le sue indicazioni scandiscono il nostro gioco con l’instancabile costanza della sirena del porto che guida i marinai nelle giornate di nebbia.

In panchina non si sta troppo bene: le giacche a vento sono ben allacciate, ma stare fermi non aiuta a difendersi dal freddo.

Il duplice fischio dell’arbitro ci manda tutti negli spogliatoi: è finito il primo tempo.

Inizia l’intervallo.

Siamo in vantaggio e il risultato è già in cassaforte; il secondo tempo sarà tranquillo.

Nello spogliatoio l’allenatore ci spiega cosa si aspetta da tutti noi: dobbiamo continuare a pressare, a creare gioco, a chiudere gli spazi all’avversario,…
… ma la mia attenzione è rivolta al termos del tè caldo.

Il tè è per tutti: per chi era in campo e per chi scaldava la panchina, per il mister e per i suoi collaboratori. Quel tè non dovevamo meritarcelo: era un dato di fatto. Ci aspettava fumante nello spogliatoio…

Oggi, a distanza di molti anni, sono io a portarmi il fischietto alle labbra per decretare l’inizio dell’intervallo. Il campo è quello della vita quotidiana: a volte è d’erba, a volte di sabbia, altre volte è di sassi; a volte si gioca in pianura, altre in salita; a volte si gioca in casa e la curva ti sostiene, altre volte fuori casa e piovono fischi a tutt’andare,…

Fischio e mi avvio verso lo spogliatoio, mi siedo e mi verso una tazza di tè caldo.

Il freddo invernale è lo stesso di quella volta.

Le partite a volte le vivi da giocatore, altre da panchinaro, altre ancora da mister,…
… mai da semplice spettatore.

E poi c’è il tè che ti aspetta.
E ti spetta sia quando sei vincitore, sia quando sei perdente, sia quando giochi bene, sia quando giochi male, sia quando hai dato tutto, sia quando non hai ancora dato niente.

L’intervallo dura giusto il tempo di tirare il fiato, di riprendere le forze.
Ma se non ci fosse, quei novanta minuti di partita non sarebbe possibile giocarli tutti.

Durante l’intervallo ti guardi attorno e senti l’importanza d’essere squadra, ascolti l’allenatore e ritrovi sicurezza: se ti fidi di lui e dei tuoi compagni, giochi meglio.

Sorseggio il mio tè e mi riscalda, oggi come quella volta.

Poi mi sistemo i parastinchi, appoggio il bicchiere sul tavolo dello spogliatoio e rientro in campo. [dGL]

sabato 19 dicembre 2015

Fiori

«Don, possiamo chiederle una cosa?», disse quello che doveva essere il capo-delegazione.

«Vi ascolto», rispose don Placido, accogliendo i ragazzi nell'ufficio parrocchiale.

«Sono un po’ di giorni che volevamo parlare con lei, ma avevamo paura che potesse bocciare la nostra idea e quindi ci siamo decisi solo ora…», cominciò a dire il più grande del gruppo.

In effetti, don Placido si era accorto che da qualche giorno in oratorio quei ragazzi lo guardavano come se stessero cercando il momento opportuno per dirgli qualcosa, ma aveva voluto aspettare che si decidessero e non li aveva forzati a parlare con lui. Ora quella frase, se da una parte lo aveva rallegrato perché era il segno che volevano coinvolgerlo nei loro progetti, dall’altra gli aveva fatto venire il dubbio di aver comunicato, con il suo modo di fare, la sensazione che lui fosse un terribile esaminatore pronto a dare il giudizio finale a ciascuno dei suoi parrocchiani: «Inesorabilmente bocciato!».

Fu così che si ritrovò a dire: «Ragazzi, parlate pure senza timore: il prete non è uno che viene mandato in una parrocchia per bocciare le idee di quelli che incontra, ma per aiutarli a farle sbocciare per il bene di tutta la comunità! Sono qui per incoraggiarvi a mettere a frutto i vostri bei talenti e non per terrorizzarvi a suon di giudizi, finché non deciderete di sotterrarli quei talenti. Se li sotterriamo non porteranno frutti, se, invece, li mettiamo generosamente a disposizione dei fratelli, la nostra parrocchia sarà un bel giardino fiorito».

Rassicurati dalle parole del don, i ragazzi cominciarono a parlare con entusiasmo, tanto che le loro voci si sovrapponevano: «Noi pensavamo che si potrebbe…». [dGL]

venerdì 11 dicembre 2015

La Santa Casa

Conosco due tradizioni riguardanti la Santa Casa di Loreto.

La più famosa racconta che gli angeli hanno preso la casa di Maria e l'hanno trasportata da Nazareth a Loreto; l'altra narra di alcuni uomini che, dopo aver smontato la casa di Nazareth, hanno preso le pietre e le hanno portate a Loreto, dove l'hanno ricostruita.

A prima vista, le due storie sembrano molto diverse, ma ieri mi sono accorto che esse tramandano lo stesso messaggio: entrambe parlano dei servi di Dio.

Servi sono gli angeli, che eseguono la missione che Dio affida loro e lo fanno con estrema fedeltà e cura: se un angelo perdesse il riferimento a Colui che lo invia e si mettesse a fare di testa sua trascurando la sua missione, non potrebbe più essere un angelo. Gli angeli, dunque, presero in custodia la Santa Casa e la trasportarono di notte fino a Loreto. Così, ogni anno nella notte tra il 9 e il 10 dicembre noi accendiamo le fochere per illuminare la via verso Loreto, ma anche perché la Madonna, passando, volga lo sguardo sulle nostre famiglie e ci mostri il suo figlio Gesù!

Servi di Dio sono gli uomini, che, secondo l’altra tradizione, hanno smontato la Santa Casa di Nazareth e l'hanno ricostruita a Loreto; anch’essi, come gli angeli, sono esecutori di una missione.

Se chiudo gli occhi, li vedo mentre smontano la casa di Nazareth e preparano le pietre per il trasporto. Le prendono tutte e non ne scartano nessuna, nemmeno quelle che sembrano imperfette, vecchie, rovinate, consumate dal tempo... Quei servi di Dio stanno ben attenti a prenderle tutte, perché sono le pietre della casa di Maria: dentro quella casa è entrato l’angelo Gabriele, dentro quella casa Maria è stata chiamata da Dio, dentro quella casa è risuonato il suo bellissimo «Sì»!

Non deve mancare nemmeno una pietra: ciascuna dovrà riprendere il suo posto, una volta giunti a Loreto. Quegli uomini svolgono bene la loro missione, perché sanno di essere servi e non architetti o ingegneri. Sono umili e non pensano nemmeno per un momento che si potrebbero trovare pietre migliori, più adatte alla costruzione, più belle, più nobili... Non gli viene in mente che a Loreto potrebbero esserci perfino pietre più adatte di quelle...

Stasera, cari amici, guardo la Santa Casa e penso alla nostra comunità cristiana.

Noi siamo le pietre vive che la costituiscono, come ci ricorda San Pietro nella sua Prima lettera, e siamo pietre preziose perché Gesù ci sceglie e non perché siamo perfetti. È Gesù che chiama ciascuno di noi a seguirlo entrando a far parte della Chiesa. E l’appartenenza a Gesù, il nostro vivere per Lui, non è testimoniato dalla quantità di opere che in parrocchia siamo capaci di compiere o dalle notizie che finiscono sui giornali o sul bollettino parrocchiale; il nostro essere cristiani traspare soprattutto dal nostro impegno a vivere la fraternità, nonostante i nostri difetti.

Di questa comunità cristiana siamo tutti responsabili. Gesù ci chiama a custodirla, a farla crescere nella fede perché possa portare buoni frutti, perché possa essere sale e luce, perché possa essere buona notizia per ogni uomo.

Nella nostra comunità possiamo scegliere d'essere angeli, servi che nel quotidiano fanno la volontà di Dio, oppure possiamo scegliere di sostituirci a Dio e fare gli architetti, gli ingegneri della comunità impiegando la vita a selezionare le pietre: tu non vai bene perché ti manca questo; tu perché parli troppo; tu perché non parli; tu perché mi sembri falso; tu perché non sei abbastanza bravo; tu perché hai questo difetto; tu perché sei povero; tu perché sei ignorante; tu perché sei vecchio; tu perché sei giovane; tu perché ho sentito dire che...; tu perché non sei perfetto!

Ma in questo modo, convinti di essere come Dio, assumiamo uno stile che è il contrario dello stile di Dio: Egli chiama e costruisce, noi escludiamo e distruggiamo.

Questa sera vorrei chiedere al Signore, per intercessione della Beata Vergine Maria, di insegnarci l’umiltà e di mettere sulla nostra bocca, e soprattutto nel nostro cuore, le parole di Maria all'Angelo Gabriele: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). [dGL]

[Omelia del 10 dicembre 2015 – Solennità della Madonna di Loreto, patrona della città di Ripatransone e della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto]

domenica 6 dicembre 2015

La porta


«1In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato». (Gv 10,1-3.9a)

Tweet: Ora sai che Gesù è la porta! Perché non provi a entrare? È la tua #grandeoccasione! #Accoglila!

«Venite e vedrete» (Gv 1,39), dice Gesù ai primi due discepoli.
E i due «andarono… e videro… e quel giorno rimasero con lui…» (Gv 1,39).
E se, poi, lo lasciarono per un po’, fu solo per andare a dire, ad altri, che finalmente lo avevano trovato. Chi lo ha trovato, non lo lascia più! E chi non lo ha ancora trovato, lo cerca con tutte le forze. Sicuramente ricordiamo l’episodio in cui i discepoli si mettono sulle tracce di Gesù e quando lo trovano gli dicono: «Tutti ti cercano» (Mc 1,36-37); oppure le parole di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69).

Perché, allora, non entriamo per la porta?
Perché c’è sempre un «ma» o un «però» che ci impedisce una vera adesione?
E poi, adesione a cosa?
Non sarebbe più giusto dire «adesione a chi?», visto che a chiamarci è il Cristo?

Oltre la porta c’è la gioia; oltre la porta c’è l’amore di Dio, che consola, che perdona, che dona speranza (cfr. Misericordiae vultus, n.3).

Che cosa ancora ci trattiene?
Perché non ci fidiamo ed entriamo?

I Santi, come Andrea, stanno qui a dirci: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1,41); essi stanno qui per condurci da Gesù, perché gli stiamo a cuore: sono nostri fratelli i Santi! Ce la mettono tutta per aiutarci a entrare, ma il passo finale, quello decisivo, dobbiamo farlo noi.

E allora aiutaci, Signore, a entrare,
fa’ che riconosciamo la tua voce
e ci fidiamo di Te che sei il Buon Pastore! [dGL]

[Breve riflessione in occasione della Veglia dell’adesione del 4 dicembre 2015 nella Parrocchia Regina Pacis, a Centobuchi]

mercoledì 2 dicembre 2015

Betlemme

Dalla scatola escono le statuine del presepe.
Escono con ordine, un ordine che mette pace.
Le guardo schierate sul tavolo: sono vecchie, ma non ancora antiche.

Il tempo è passato e ha lasciato i suoi segni:
San Giuseppe s’è un po’ scolorito,
il manto di Maria è segnato da piccole scheggiature, ma nel blu sembrano stelle,
un orecchio dell’asinello ha perso la punta,
lo scrigno di un re magio s’è spaccato e qualche grano di incenso è caduto,...

Forse si potrebbero ricoverare in museo, ma non lo trovo giusto: esse, infatti, con le loro imperfezioni sono così vere!

Somigliano a noi, che invecchiamo, collezioniamo fallimenti e delusioni, portiamo addosso graffi e cicatrici, eppure non ci stanchiamo di sorridere a un bambino appena nato, di difenderlo da ogni minaccia, fin dal grembo materno, di dargli una casa, del cibo, dell’acqua, un vestito, delle cure,…

Giorno e notte si succedono e le statuine restano lì a vegliare, a riscaldare, a offrire, a camminare, a cantare lodando Dio!

A qualcuno fa paura questo loro restare, ma alla maggior parte delle persone comunica tenerezza, quella tenerezza di cui ciascuno nelle sue giornate sente il bisogno.

A noi cristiani il presepe ricorda l’amore di Dio che sempre si rinnova, agli altri, forse, fa pensare a un bel panorama o alla bravura dell’artista che lo ha allestito,…
Ma a tutti dice la bellezza della vita semplice, delle relazioni autentiche, della solidarietà, dei buoni pensieri.

A me il presepe dice che, se voglio portare misericordia ai fratelli, non devo distogliere lo sguardo da quel Dio tanto misericordioso da venire «in una grotta al freddo e al gelo». [dGL]