martedì 29 dicembre 2015

Il tè

In campo c’è un’umidità pazzesca.
Eppure si gioca.

Il mister urla da bordo campo e le sue indicazioni scandiscono il nostro gioco con l’instancabile costanza della sirena del porto che guida i marinai nelle giornate di nebbia.

In panchina non si sta troppo bene: le giacche a vento sono ben allacciate, ma stare fermi non aiuta a difendersi dal freddo.

Il duplice fischio dell’arbitro ci manda tutti negli spogliatoi: è finito il primo tempo.

Inizia l’intervallo.

Siamo in vantaggio e il risultato è già in cassaforte; il secondo tempo sarà tranquillo.

Nello spogliatoio l’allenatore ci spiega cosa si aspetta da tutti noi: dobbiamo continuare a pressare, a creare gioco, a chiudere gli spazi all’avversario,…
… ma la mia attenzione è rivolta al termos del tè caldo.

Il tè è per tutti: per chi era in campo e per chi scaldava la panchina, per il mister e per i suoi collaboratori. Quel tè non dovevamo meritarcelo: era un dato di fatto. Ci aspettava fumante nello spogliatoio…

Oggi, a distanza di molti anni, sono io a portarmi il fischietto alle labbra per decretare l’inizio dell’intervallo. Il campo è quello della vita quotidiana: a volte è d’erba, a volte di sabbia, altre volte è di sassi; a volte si gioca in pianura, altre in salita; a volte si gioca in casa e la curva ti sostiene, altre volte fuori casa e piovono fischi a tutt’andare,…

Fischio e mi avvio verso lo spogliatoio, mi siedo e mi verso una tazza di tè caldo.

Il freddo invernale è lo stesso di quella volta.

Le partite a volte le vivi da giocatore, altre da panchinaro, altre ancora da mister,…
… mai da semplice spettatore.

E poi c’è il tè che ti aspetta.
E ti spetta sia quando sei vincitore, sia quando sei perdente, sia quando giochi bene, sia quando giochi male, sia quando hai dato tutto, sia quando non hai ancora dato niente.

L’intervallo dura giusto il tempo di tirare il fiato, di riprendere le forze.
Ma se non ci fosse, quei novanta minuti di partita non sarebbe possibile giocarli tutti.

Durante l’intervallo ti guardi attorno e senti l’importanza d’essere squadra, ascolti l’allenatore e ritrovi sicurezza: se ti fidi di lui e dei tuoi compagni, giochi meglio.

Sorseggio il mio tè e mi riscalda, oggi come quella volta.

Poi mi sistemo i parastinchi, appoggio il bicchiere sul tavolo dello spogliatoio e rientro in campo. [dGL]

sabato 19 dicembre 2015

Fiori

«Don, possiamo chiederle una cosa?», disse quello che doveva essere il capo-delegazione.

«Vi ascolto», rispose don Placido, accogliendo i ragazzi nell'ufficio parrocchiale.

«Sono un po’ di giorni che volevamo parlare con lei, ma avevamo paura che potesse bocciare la nostra idea e quindi ci siamo decisi solo ora…», cominciò a dire il più grande del gruppo.

In effetti, don Placido si era accorto che da qualche giorno in oratorio quei ragazzi lo guardavano come se stessero cercando il momento opportuno per dirgli qualcosa, ma aveva voluto aspettare che si decidessero e non li aveva forzati a parlare con lui. Ora quella frase, se da una parte lo aveva rallegrato perché era il segno che volevano coinvolgerlo nei loro progetti, dall’altra gli aveva fatto venire il dubbio di aver comunicato, con il suo modo di fare, la sensazione che lui fosse un terribile esaminatore pronto a dare il giudizio finale a ciascuno dei suoi parrocchiani: «Inesorabilmente bocciato!».

Fu così che si ritrovò a dire: «Ragazzi, parlate pure senza timore: il prete non è uno che viene mandato in una parrocchia per bocciare le idee di quelli che incontra, ma per aiutarli a farle sbocciare per il bene di tutta la comunità! Sono qui per incoraggiarvi a mettere a frutto i vostri bei talenti e non per terrorizzarvi a suon di giudizi, finché non deciderete di sotterrarli quei talenti. Se li sotterriamo non porteranno frutti, se, invece, li mettiamo generosamente a disposizione dei fratelli, la nostra parrocchia sarà un bel giardino fiorito».

Rassicurati dalle parole del don, i ragazzi cominciarono a parlare con entusiasmo, tanto che le loro voci si sovrapponevano: «Noi pensavamo che si potrebbe…». [dGL]

venerdì 11 dicembre 2015

La Santa Casa

Conosco due tradizioni riguardanti la Santa Casa di Loreto.

La più famosa racconta che gli angeli hanno preso la casa di Maria e l'hanno trasportata da Nazareth a Loreto; l'altra narra di alcuni uomini che, dopo aver smontato la casa di Nazareth, hanno preso le pietre e le hanno portate a Loreto, dove l'hanno ricostruita.

A prima vista, le due storie sembrano molto diverse, ma ieri mi sono accorto che esse tramandano lo stesso messaggio: entrambe parlano dei servi di Dio.

Servi sono gli angeli, che eseguono la missione che Dio affida loro e lo fanno con estrema fedeltà e cura: se un angelo perdesse il riferimento a Colui che lo invia e si mettesse a fare di testa sua trascurando la sua missione, non potrebbe più essere un angelo. Gli angeli, dunque, presero in custodia la Santa Casa e la trasportarono di notte fino a Loreto. Così, ogni anno nella notte tra il 9 e il 10 dicembre noi accendiamo le fochere per illuminare la via verso Loreto, ma anche perché la Madonna, passando, volga lo sguardo sulle nostre famiglie e ci mostri il suo figlio Gesù!

Servi di Dio sono gli uomini, che, secondo l’altra tradizione, hanno smontato la Santa Casa di Nazareth e l'hanno ricostruita a Loreto; anch’essi, come gli angeli, sono esecutori di una missione.

Se chiudo gli occhi, li vedo mentre smontano la casa di Nazareth e preparano le pietre per il trasporto. Le prendono tutte e non ne scartano nessuna, nemmeno quelle che sembrano imperfette, vecchie, rovinate, consumate dal tempo... Quei servi di Dio stanno ben attenti a prenderle tutte, perché sono le pietre della casa di Maria: dentro quella casa è entrato l’angelo Gabriele, dentro quella casa Maria è stata chiamata da Dio, dentro quella casa è risuonato il suo bellissimo «Sì»!

Non deve mancare nemmeno una pietra: ciascuna dovrà riprendere il suo posto, una volta giunti a Loreto. Quegli uomini svolgono bene la loro missione, perché sanno di essere servi e non architetti o ingegneri. Sono umili e non pensano nemmeno per un momento che si potrebbero trovare pietre migliori, più adatte alla costruzione, più belle, più nobili... Non gli viene in mente che a Loreto potrebbero esserci perfino pietre più adatte di quelle...

Stasera, cari amici, guardo la Santa Casa e penso alla nostra comunità cristiana.

Noi siamo le pietre vive che la costituiscono, come ci ricorda San Pietro nella sua Prima lettera, e siamo pietre preziose perché Gesù ci sceglie e non perché siamo perfetti. È Gesù che chiama ciascuno di noi a seguirlo entrando a far parte della Chiesa. E l’appartenenza a Gesù, il nostro vivere per Lui, non è testimoniato dalla quantità di opere che in parrocchia siamo capaci di compiere o dalle notizie che finiscono sui giornali o sul bollettino parrocchiale; il nostro essere cristiani traspare soprattutto dal nostro impegno a vivere la fraternità, nonostante i nostri difetti.

Di questa comunità cristiana siamo tutti responsabili. Gesù ci chiama a custodirla, a farla crescere nella fede perché possa portare buoni frutti, perché possa essere sale e luce, perché possa essere buona notizia per ogni uomo.

Nella nostra comunità possiamo scegliere d'essere angeli, servi che nel quotidiano fanno la volontà di Dio, oppure possiamo scegliere di sostituirci a Dio e fare gli architetti, gli ingegneri della comunità impiegando la vita a selezionare le pietre: tu non vai bene perché ti manca questo; tu perché parli troppo; tu perché non parli; tu perché mi sembri falso; tu perché non sei abbastanza bravo; tu perché hai questo difetto; tu perché sei povero; tu perché sei ignorante; tu perché sei vecchio; tu perché sei giovane; tu perché ho sentito dire che...; tu perché non sei perfetto!

Ma in questo modo, convinti di essere come Dio, assumiamo uno stile che è il contrario dello stile di Dio: Egli chiama e costruisce, noi escludiamo e distruggiamo.

Questa sera vorrei chiedere al Signore, per intercessione della Beata Vergine Maria, di insegnarci l’umiltà e di mettere sulla nostra bocca, e soprattutto nel nostro cuore, le parole di Maria all'Angelo Gabriele: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). [dGL]

[Omelia del 10 dicembre 2015 – Solennità della Madonna di Loreto, patrona della città di Ripatransone e della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto]

domenica 6 dicembre 2015

La porta


«1In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato». (Gv 10,1-3.9a)

Tweet: Ora sai che Gesù è la porta! Perché non provi a entrare? È la tua #grandeoccasione! #Accoglila!

«Venite e vedrete» (Gv 1,39), dice Gesù ai primi due discepoli.
E i due «andarono… e videro… e quel giorno rimasero con lui…» (Gv 1,39).
E se, poi, lo lasciarono per un po’, fu solo per andare a dire, ad altri, che finalmente lo avevano trovato. Chi lo ha trovato, non lo lascia più! E chi non lo ha ancora trovato, lo cerca con tutte le forze. Sicuramente ricordiamo l’episodio in cui i discepoli si mettono sulle tracce di Gesù e quando lo trovano gli dicono: «Tutti ti cercano» (Mc 1,36-37); oppure le parole di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69).

Perché, allora, non entriamo per la porta?
Perché c’è sempre un «ma» o un «però» che ci impedisce una vera adesione?
E poi, adesione a cosa?
Non sarebbe più giusto dire «adesione a chi?», visto che a chiamarci è il Cristo?

Oltre la porta c’è la gioia; oltre la porta c’è l’amore di Dio, che consola, che perdona, che dona speranza (cfr. Misericordiae vultus, n.3).

Che cosa ancora ci trattiene?
Perché non ci fidiamo ed entriamo?

I Santi, come Andrea, stanno qui a dirci: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1,41); essi stanno qui per condurci da Gesù, perché gli stiamo a cuore: sono nostri fratelli i Santi! Ce la mettono tutta per aiutarci a entrare, ma il passo finale, quello decisivo, dobbiamo farlo noi.

E allora aiutaci, Signore, a entrare,
fa’ che riconosciamo la tua voce
e ci fidiamo di Te che sei il Buon Pastore! [dGL]

[Breve riflessione in occasione della Veglia dell’adesione del 4 dicembre 2015 nella Parrocchia Regina Pacis, a Centobuchi]

mercoledì 2 dicembre 2015

Betlemme

Dalla scatola escono le statuine del presepe.
Escono con ordine, un ordine che mette pace.
Le guardo schierate sul tavolo: sono vecchie, ma non ancora antiche.

Il tempo è passato e ha lasciato i suoi segni:
San Giuseppe s’è un po’ scolorito,
il manto di Maria è segnato da piccole scheggiature, ma nel blu sembrano stelle,
un orecchio dell’asinello ha perso la punta,
lo scrigno di un re magio s’è spaccato e qualche grano di incenso è caduto,...

Forse si potrebbero ricoverare in museo, ma non lo trovo giusto: esse, infatti, con le loro imperfezioni sono così vere!

Somigliano a noi, che invecchiamo, collezioniamo fallimenti e delusioni, portiamo addosso graffi e cicatrici, eppure non ci stanchiamo di sorridere a un bambino appena nato, di difenderlo da ogni minaccia, fin dal grembo materno, di dargli una casa, del cibo, dell’acqua, un vestito, delle cure,…

Giorno e notte si succedono e le statuine restano lì a vegliare, a riscaldare, a offrire, a camminare, a cantare lodando Dio!

A qualcuno fa paura questo loro restare, ma alla maggior parte delle persone comunica tenerezza, quella tenerezza di cui ciascuno nelle sue giornate sente il bisogno.

A noi cristiani il presepe ricorda l’amore di Dio che sempre si rinnova, agli altri, forse, fa pensare a un bel panorama o alla bravura dell’artista che lo ha allestito,…
Ma a tutti dice la bellezza della vita semplice, delle relazioni autentiche, della solidarietà, dei buoni pensieri.

A me il presepe dice che, se voglio portare misericordia ai fratelli, non devo distogliere lo sguardo da quel Dio tanto misericordioso da venire «in una grotta al freddo e al gelo». [dGL]

mercoledì 11 novembre 2015

San Martino

Il giorno in cui Martino dovette svestirsi della toga pretesta e della bulla appesa al collo, segni dell’infanzia, compiva quindici anni ed era ormai un giovane uomo. Come ogni figlio di veterano aveva una carriera già tracciata: l’esercito. In realtà mancavano ancora due anni all’arruolamento obbligatorio, stabilito a diciassette anni, ma nuove disposizioni legislative permettevano l’arruolamento a quindici anni e, inoltre, il padre, irritato dalla ripugnanza di suo figlio per la professione delle armi e dalla sua inclinazione verso la vita del monaco cristiano, obbligò il figlio a prestare immediatamente il giuramento militare.

Così legato da un giuramento solenne, Martino si preparò, suo malgrado, alla carriera delle armi, e iniziò il suo servizio due anni più tardi e, come figlio di veterano, fu subito promosso al grado di circitor con doppio soldo. Il compito del circitor era la ronda di notte nel servizio della piazza e l’ispezione dei posti di guardia, nonché la sorveglianza notturna delle guarnigioni. Durante una di queste ronde, Martino incontrò appunto nel cuore dell’inverno un povero seminudo e, non avendo più denari, prese la spada, tagliò in due la propria clamide (ne staccò, cioè, la fodera di pelliccia) e ne donò la metà al povero. La notte seguente egli vide in sogno il Cristo, rivestito della metà del suo mantello militare, che diceva agli angeli:  «Martino, ancora catecumeno, mi ha coperto con questo mantello».

[Tratto dalla voce “Martino, vescovo di Tours, santo” in Bibliotheca Sanctorum, vol. VIII]

lunedì 9 novembre 2015

Passo dopo passo

Le riunioni di Vicaria sono importanti, non solo perché è bello stare insieme, ma anche perché sono l’occasione per dialogare e mettere in comune idee, proposte, progetti.

Capita così anche nella Vicaria Madonna di San Giovanni: accogliendo l’invito del Vescovo a incrementare la collaborazione tra parrocchie, l’anno scorso abbiamo cominciato a parlare della possibilità di un corso matrimoniale interparrocchiale. Era poco più che una proposta messa sul tavolo della discussione, ma ormai il seme era stato gettato …

Qualche mese dopo, nella canonica della parrocchia Madonna di Fatima, i parroci interessati all’iniziativa comune si riuniscono per ragionare sull’effettiva realizzazione di quello che sembrava un sogno. Carta e penna – o tablet – in mano, don Luis (parrocchia Madonna di Fatima), don Nicola (parrocchie Santa Maria Assunta e Santa Maria Ausiliatrice), don Dino (parrocchie Madonna della Speranza e San Martino) e don Gian Luca (parrocchie Santi Gregorio Magno e Niccolò e Santi Benigno e Michele Arcangelo) ascoltano don Andrea (parrocchia Gran Madre di Dio) mentre presenta il corso matrimoniale che, da qualche anno, propone ai fidanzati nella sua parrocchia Gran Madre di Dio. Poi si apre la discussione e si condividono suggerimenti, proposte, integrazioni. Si riesce perfino a fare una bozza di calendario. Il seme ha trovato un terreno accogliente: ci sono le condizioni buone per germogliare,…

Il 19 ottobre 2015 alle 21.30 in una sala della parrocchia Madonna della Speranza c’è la prima riunione di equipe: siamo 5 preti e 4 coppie guida (coppie, sposate già da qualche anno, che accompagnano i fidanzati durante il corso matrimoniale). L’esperienza è nuova per tutti: parteciperanno fidanzati provenienti da più parrocchie, occorrerà tener conto delle differenze tra le parrocchie di collina e quelle della costa, non ci sarà la possibilità di richiamarsi a un’esperienza precedente (sembra strano, ma stavolta è praticamente impossibile esclamare: «si è fatto sempre così»!). Ma è bello veder nascere qualcosa di nuovo e gioire dei primi piccoli passi! Il germoglio cresce piano, ma costante …

Oggi è sabato 7 novembre. Ieri sera alle 21.15 è iniziato il corso per i fidanzati nella parrocchia Gran Madre di Dio. A me è stato affidato il compito di scrivere l’articolo. Stamattina ho in testa una domanda che rivolgo ai fidanzati e anche agli sposati: ma perché non mettere tra le foto del matrimonio anche la foto di gruppo scattata all’inizio del corso matrimoniale? In fondo è un primo passo ufficiale! Ricorda un po’ il primo giorno di scuola, quando con la cartella in mano e il grembiule nuovo, ci si mette in posa sul portone di casa e si accenna un sorriso che è un misto di speranza e di timore …

Al corso matrimoniale, come a scuola, si va per imparare, per scoprire cos’è il matrimonio e che significa vivere il matrimonio cristiano; si va al corso matrimoniale per scoprire la straordinaria vocazione ricevuta: essere scelti da Cristo per diventare segno del Suo amore.

La prima sera di scuola è significativa; è il momento in cui la coppia manifesta il suo desiderio di incamminarsi con decisione verso una scelta di vita, verso il «per sempre». Il «per sempre» rassicura, ma fa un po’ tremare: «Ne sarò capace?»; «Ne saremo capaci?».
Scoprirsi incamminati con altri sulla stessa strada, verso la stessa meta condivisa, aiuta, solleva, incoraggia: «Allora non siamo solo noi!», «Ci sono con noi persone su cui possiamo contare!».

Il nostro primo incontro inizia con un gioco di conoscenza proposto da due giovani educatori di un oratorio parrocchiale: ogni coppia riceve un foglio su cui è scritto «ci piace» e «non ci piace». In pochi minuti le coppie devono scrivere una cosa che piace e una cosa che non piace a entrambi. Poi, divisi in tre squadre, si prova a indovinare a quale coppia corrisponde ciascun foglietto. Sorrisi e applausi indicano che s’è rotto il ghiaccio. Intanto, i «ci piace» e i «non ci piace», letti ad alta voce dai due animatori, rivelano un filo conduttore che lega un po’ tutte le risposte: ci piace stare insieme e condividere esperienze, non ci piace litigare e stare lontani.

Le 19 coppie cominciano a conoscersi e a vedere che c’è qualcosa di comune a tutti: il desiderio di condividere la vita con l’altro. Siamo lì anche noi preti e coppie guida a testimoniarlo con una fraternità lieta. C’è una bella atmosfera e il tempo passa in fretta!

Dopo il gioco, si dispongono le sedie in cerchio e, seduti, ascoltiamo don Andrea che introduce l’icona biblica. Legge Gv 2,1-12: Gesù alle nozze di Cana. È l’inizio dei segni compiuti da Gesù (Gv 2,11) e avviene proprio in occasione di un matrimonio! Per un buon matrimonio – dice don Andrea – i due sposi sono chiamati a custodire la vita cristiana nella Chiesa, la condivisione della mensa come occasione di dialogo sincero per la famiglia, la tenerezza tra loro. Sono tre pilastri su cui la famiglia può poggiare salda e crescere bene.

Il terzo momento prevede la divisione in gruppi. I fidanzati si raccolgono ai quattro angoli del salone parrocchiale e, con l’aiuto delle coppie guida, condividono la propria risposta alle domande: «Perché volete sposarvi in Chiesa?» e «Come vi siete conosciuti?».

Noi preti, per non influenzarli nelle risposte, ce ne stiamo un po’ in disparte e ci rallegriamo notando la vivacità della discussione.

Dopo una mezz’oretta di condivisione, arriva il momento conclusivo. Di nuovo in cerchio, preghiamo insieme il Padre nostro e riceviamo la benedizione. Poi, prima di salutarci e fare la foto, ascoltiamo una barzelletta perché è importante tornare a casa con un bel sorriso!

Sorridenti al centro del salone siamo tanti, ma riusciamo a entrare tutti in un selfie!
Così l’inizio del corso è pronto per essere stampato ed entrare a far parte dell’album di ciascuno di noi, protagonisti di questa storia! [dGL]

sabato 7 novembre 2015

Dolcezza

«La creazione è piena di dolcezza. Perché pensare solo all'aceto?». (L. De Wohl, Il gioioso mendicante)

venerdì 6 novembre 2015

Purifichiamo il cuore!

Se ti abitui a pensare male, alla fine riesci a vedere opaco anche il vetro più trasparente! [dGL]

giovedì 5 novembre 2015

Il bene

«Figli miei, non lo dimenticate: c'è solo il bene, puro e semplice; non c'è "a fin di bene"». (I. Silone, L'avventura d'un povero cristiano)

mercoledì 4 novembre 2015

Devi o puoi

Il "puoi" mi fa pensare alla libertà di una proposta; il "devi" alle catene di una costrizione. Per questo in parrocchia mi piacerebbe usare il "puoi" e solo quando è proprio inevitabile, il "devi". [dGL]

martedì 3 novembre 2015

Stiamo al sole!

Se non ci scaldiamo continuamente al nostro sole che è Cristo, nella vita potremo anche fare tante opere ma non saranno opere di misericordia perché a esse mancheranno il calore, il colore, l'amore tipici della misericordia! [dGL]

lunedì 2 novembre 2015

I santini non sono piccoli santi!

I santi sono fatti di carne, i santini di carta. Forse è per questo che è più facile collezionare i secondi, piuttosto che seguire l'esempio dei primi: la carta si archivia, i santi, invece, se li ascoltiamo ci sconvolgono la vita! [dGL]

giovedì 29 ottobre 2015

A uomo

L’idea mi viene suggerita dalla calcistica marcatura a uomo, ma, come tutte le idee, non ha la pretesa di coincidere con la realtà che descrive. Vorrebbe essere, invece, il tentativo di sintetizzare un modo di evangelizzare. Scherzosamente mi propongo una pastorale a uomo. La propongo a me e a voi lettori perché mi sembra che il tema possa avere ulteriori sviluppi grazie alla corresponsabilità di tutto il popolo di Dio (sono molto graditi eventuali commenti e contributi alla riflessione; se volete, potete postarli qui sul blog). Dicendo pastorale a uomo intendo esprimere il farsi prossimo del pastore alle sue pecorelle. Un farsi prossimo che comporta, come dice Papa Francesco, la disponibilità a prendere l’odore delle pecore. Per far questo, il pastore è sempre in ascolto della voce del Buon Pastore e della voce del gregge che gli è stato affidato.

Egli non deve aver paura dei lupi, ma non deve aver paura neanche delle pecore, delle loro domande, dei loro dubbi, delle loro contestazioni, delle loro malattie e sofferenze, delle loro gioie, dei loro peccati, delle loro stranezze,…

Chi sta in ascolto non ha già le risposte confezionate e, di fronte a certe situazioni, ha il coraggio di ammettere che è necessario un paziente discernimento e che lo schema va rivisto o addirittura strappato e riscritto da capo.

Chi sta in ascolto dell’uomo e lo ama, cammina con lui e quando prende altre strade e si allontana, lo va a cercare, gli si fa vicino, riprende con lui il filo del discorso che un giorno si è interrotto per qualche motivo.

Penso alla catechesi parrocchiale.

Nei primi anni le stanze sono piene di bambini e l’entusiasmo da parte loro è alle stelle: fioccano i complimenti dei genitori ai catechisti, agli educatori e al parroco per le belle iniziative e per l’ora di catechesi così interessante e coinvolgente.

Poi i bambini diventano ragazzi e già l’impianto comincia a scricchiolare: i primi dubbi, l’adolescenza, il desiderio di tempo libero da trascorrere con gli amici, l’idea che diventando grandi, non c’è più bisogno della compagnia di Dio,…

Poi i ragazzi diventano giovani e progressivamente cominciano a confrontarsi col mondo, con la cultura, con opinioni di persone distanti dalla fede, con una informazione che li considera come individui da educare alla logica del consumo, con la proposta di una vita spensierata, legata alle mode del momento.

E noi cristiani dove siamo?

Potremmo essere lì a dialogare con loro: a parlare di Nietzsche e Marx, di Kierkegaard e Pascal, a guardare insieme un quadro di Caravaggio o un dipinto di Fra’ Ugolino da Belluno, ad ascoltare una canzone o una poesia, a pregare con loro il salmo 103 (104) in riva al mare mentre fa giorno o prima di affrontare un sentiero di montagna,…

Potremmo provare a rassicurarli quando sono spaventati dagli scandali e dalle contro testimonianze che noi grandi diamo quando stacchiamo il Vangelo dalla nostra vita e, vestiti da buoni cristiani, viviamo come se Dio non esistesse.

Potremmo prenderli per mano quando, impauriti e sfiduciati, non sono più capaci di muovere un passo e si siedono o si stendono paralizzati sul bordo della strada immersi nei social o in una qualche realtà virtuale.

Potremmo chiederci perché preferiscono uscire di notte, quando le nostre piazze sono vuote e i ben pensanti dormono sonni beati e non possono guardarli male e giudicarli.

Potremmo lasciare la porta del nostro cuore aperta perché non si sentano in difficoltà a entrare per trovare conforto e un po’ di ristoro.

E quando dico potremmo, non parlo solo di noi preti, ma di tutto il popolo di Dio: i genitori, i nonni, gli amici, i maestri, i professori, i datori di lavoro, i politici, i cristiani tutti sono missionari e ogni giorno si fanno prossimi agli uomini per camminare con loro, per aiutarci a vicenda a camminare verso il Paradiso!

Insomma, quando mi propongo una pastorale a uomo, intendo provare con l’aiuto di Dio a essere tutto questo! [dGL]

martedì 27 ottobre 2015

lunedì 26 ottobre 2015

Differenza

I santi erano convinti d'esser peccatori, noi, invece, il più delle volte siamo convinti d'esser santi! [dGL]

sabato 24 ottobre 2015

Talenti

La benevolenza nei confronti dell’altro inizia quando riconosco che il suo talento non sminuisce il mio e che i nostri due talenti insieme ci fanno più credibili nell’annuncio del Vangelo! [dGL]

venerdì 23 ottobre 2015

Mi piacerebbe…

Quella sera don Placido scrisse sul suo diario:

«Mi piacerebbe bussare alla porta dei miei parrocchiani senza un motivo preciso, semplicemente per andarli a trovare là dove stanno, tra le loro cose. Probabilmente si aprirebbero tutte le porte, anche quelle dei più lontani e farebbe l’effetto della visita di Gesù a Zaccheo o delle telefonate a sorpresa da parte del Papa. Perché, normalmente, i parrocchiani si aspettano la visita del prete per la benedizione della casa, per la comunione e l’unzione agli infermi, per chiedere i motivi della poca presenza a messa o all’incontro di catechesi,… ma non si aspettano che il pastore li vada a trovare per sapere come stanno e stare un po’ insieme. E quando capita, è qualcosa di eccezionale di cui si parla ai vicini con meraviglia e orgoglio: «Il curato è entrato in casa mia! Ha voluto sapere come stavo! Mi è venuto a cercare!». Fa questo effetto la Chiesa che trova il modo e il tempo di entrarti in casa. Ti fa piacere, perché la senti vicina, la vedi presente!

Mi piacerebbe bussare così alla porta dei miei parrocchiani,
ma poi penso che potrei metterli in imbarazzo, che dovrei progettare bene l’iniziativa specificando le ragioni che me l’hanno suggerita, gli obiettivi da raggiungere, i tempi di attuazione e le strategie; penso che a fine anno dovrei procedere alla verifica di quanto ho fatto, che l’impegno potrebbe non portare frutti, che scegliendo la pastorale a uomo, trascurerei la pastorale a zona,…
… e mi passa la voglia di provare.

Però quanto mi piacerebbe!». [dGL]

mercoledì 7 ottobre 2015

Se i giornali diventano social…

La riunione dell’equipe acr è finita tardi e quando accendo la macchina per tornare a casa, il rosario di papa Benedetto su Radio Maria è iniziato da qualche minuto. «Meno male», mi dico mentre faccio manovra per uscire dal parcheggio. Può sembrare strano, ma quel pregare tranquillo mi dice tanto: mi ricorda che la Chiesa sono tante persone miti come papa Francesco, il papa emerito Benedetto, molti vescovi, preti, diaconi, suore, laici che, nel nascondimento e nella semplicità, pregano ogni giorno, senza stancarsi, senza scoraggiarsi; pregano per fare la volontà di Dio là dove si trovano, là dove gli viene chiesto di stare o di rimanere. Di questo hanno paura il diavolo e i suoi collaboratori e si sforzano di presentare al pubblico una Chiesa ricca di scandali e di infedeltà.

Il tragitto verso casa è lungo e il papa emerito ha tempo di terminare la preghiera. Finito il rosario, cambio stazione e su Radio Uno trovo un programma in cui si parla della Chiesa: l’obiettivo è puntato sul Sinodo sulla famiglia e su alcune interviste a preti andati a cercare (o che si sono fatti trovare) dai giornali o dalle TV per fare notizia, più che per fare buona informazione. Le parole di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire e ospite della trasmissione, sono come una boccata d’ossigeno o come la luce accesa a diradare le tenebre: finalmente una persona equilibrata e competente a parlare di Chiesa! Ma soprattutto un vero giornalista! Che bello quando le persone fanno bene il loro lavoro, ci mettono passione e affrontano in modo serio e responsabile le questioni!

Serietà e responsabilità che non sempre in questi giorni ho riscontrato negli articoli apparsi sui giornali locali a seguito degli spostamenti dei sacerdoti decisi dal Vescovo della mia Diocesi.

Mi chiedo come sia possibile scrivere di temi tanto delicati e sputare sentenze, giudizi, sospetti su persone e decisioni senza conoscere minimamente la Chiesa, quella universale e quella locale. Si va dall’errore legato all’età di uno dei sacerdoti interessati, all’errore grave di ragionare e indurre a ragionare come se la Chiesa fosse un’organizzazione in cui è normale aspirare a far carriera o a occupare i posti di maggior prestigio. Leggendo ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un vero e proprio minestrone di chiacchiere, raccolte qua e là, mescolate e servite ai lettori col solo intento di creare confusione e magari scatenare sui social o sui giornali online una pioggia di commenti e condivisioni.

Eppure i giornalisti avrebbero avuto tanto da scrivere!

Avrebbero potuto scrivere dello stupore della gente che non si aspettava tali avvicendamenti, dell’affetto dei parrocchiani che si sono commossi domenica 4 ottobre quando in chiesa è stato dato l’annuncio, del loro normale dispiacere per la partenza di una persona apprezzata e divenuta cara, ma anche della loro gioia.

Sì. Ho detto gioia!

Credo che il cristiano che va a messa per Gesù Cristo e non per don Tizio o don Caio (nomi di fantasia), abbia molti motivi per passare dall’iniziale tristezza alla gioia.

Gioia perché il parroco (o il vice-parroco) tanto amato e stimato, che si è speso generosamente per anni al servizio della sua parrocchia, ora va a incontrare una nuova comunità, va a offrire il suo sorriso anche ad altre persone!

Gioia perché il parroco (o il vice-parroco) tanto amato e stimato, ha dato prova di docilità e di fede nell’obbedire a Cristo che lo ha chiamato, attraverso la voce del Vescovo, a recarsi in un’altra parrocchia. E l’obbedienza costa: chiede di lasciare amici, collaboratori, attività ben avviate, abitudini, sicurezze,… chiede di partire portandosi dietro solo l’essenziale.

Gioia perché si accoglie un nuovo pastore che sarà sicuramente diverso dal precedente, ma viene nel nome dello stesso Cristo, viene a predicare lo stesso Vangelo, viene a continuare l’opera del suo predecessore.

Gioia perché si è pieni di gratitudine a Dio che non fa mancare alla sua Chiesa tanti pastori che offrono la vita per il bene del gregge.

Gioia perché col nostro essere comunità parrocchiale, avremo tanto da ricevere dai nuovi pastori, ma avremo anche la bella possibilità di donare loro il nostro aiuto, il nostro affetto, la nostra disponibilità a seguirli e a essere, come loro, obbedienti a Gesù Cristo e alla Sua Chiesa!

Gioia, infine, perché c’è un Vescovo che fa discernimento sulla Diocesi che gli è affidata e, libero da condizionamenti esterni e dai nostri inevitabili particolarismi, simpatie e campanilismi, prende decisioni per il bene del gregge. Decisioni che da tutti noi fedeli vanno accolte con fiducia e disponibilità a collaborare!

Ecco. Se non si è in grado di scrivere tutto questo, se non si prova un minimo di questa gioia, penso sia meglio tacere e rispettare persone e fatti di cui non si comprende nulla! [dGL]

martedì 6 ottobre 2015

Nel calcio, ma anche nella vita…

«… il tifo è così, vagante fra la condanna e l’apoteosi; così anche la critica, talvolta. Così il calcio, sempre. Basta non farci caso e lavorare, lavorare, lavorare. Come Sarri» (da un articolo di Italo Cucci su Avvenire, 6 ottobre 2015).

Ti ringrazio, Italo, per la tua riflessione.
Ne faccio tesoro e spero di imparare anch’io a «non farci caso e lavorare, lavorare, lavorare»! [dGL]

venerdì 2 ottobre 2015

La confessione della guida

Nel museo dove lavoro come guida, ci sono tre grandi ambienti da visitare: il padiglione della «chiesa antica», quello della «chiesa contemporanea» e quello della «chiesa del futuro».

Pastori e pecorelle, come turisti, vi si aggirano meravigliandosi di ciò che vedono.

Nel padiglione della «chiesa antica» fanno bella mostra di sé tutti i ricordi delle iniziative che, almeno a detta di un nostalgico, «una volta funzionavano così bene e oggi, inspiegabilmente, non si usano più».

Nel padiglione della «chiesa contemporanea», sono raccolte tradizioni provenienti da un passato prossimo; si tratta di tutte quelle cose che stanno passando di moda, ma in alcuni luoghi sono ancora in uso. Qui i turisti sono presi dai ricordi dell’infanzia o della giovinezza e si vede qualche lacrima di commozione.

Nel padiglione della «chiesa del futuro» sono esposte le nuove teorie, quelle suggerite dalla necessità di aggiornamento, dagli entusiasmi e dalle mode del momento. Di solito a questo punto della visita guidata, i turisti si accendono di entusiasmo e le esclamazioni si susseguono: «Finalmente!», «Era ora!», «Lo dicevo io che bisognava adeguarsi ai tempi moderni!», «Questo è quello che ci vuole per far tornare i giovani!», ...

Accompagno visite guidate da molti anni.
È bello fare il giro dei padiglioni con gruppi di tutte le età ed estrazioni sociali. Mi piace ascoltare ciò che dicono i visitatori mentre passiamo davanti a pezzi di storia più o meno vicini a loro. Mi piace guardare i loro volti stupiti quando troviamo, già custodita in museo, l’iniziativa pastorale che, solo qualche giorno prima, il parroco aveva presentato ai suoi collaboratori come «un’idea originale e attuale, al passo coi tempi».

Però, il momento che mi piace di più è quello dell’uscita, quando si torna a camminare per le vie del mondo, quando non si ha più a che fare con manichini, ma con uomini veri, quando la sicurezza di una teca allarmata viene sostituita dall’incertezza e dalla complessità delle relazioni, quando si torna a fare la storia.

A volte l’aria fresca non basta a svegliare i turisti e alcuni pare proprio che restino come incantati, pare che respirino un’aria perennemente condizionata, incapaci di vivere la fede come qualcosa che coinvolge tutto e non solo gli occhi: sentono, guardano, parlano, ammirano, ma non partecipano. Forse hanno paura che suoni l’allarme!

Altri escono dal museo contenti di aver trovato finalmente la soluzione: nei padiglioni del museo non è vietato fare le foto e così, una volta usciti, subito corrono a imitare, copiare, riproporre schemi, modelli, idee,… Forse a condizionarli è la paura di ascoltare la viva realtà: arrivano con la risposta pronta e, se qualcuno gli fa notare che essa non è aderente alla domanda, fanno in modo di adattare la domanda alla risposta.

Per fortuna, molti visitatori non hanno alcuna intenzione di vivere in un museo. Essi vi entrano mossi da un sincero desiderio di conoscenza, ma non si sognerebbero mai di abbandonare la dinamicità del presente per la staticità del passato.

È per questo genere di visitatori che continuo a fare il mio mestiere, convinto che il compito della storia sia quello di incoraggiare l’uomo a coinvolgersi veramente nel suo presente! [dGL]

martedì 29 settembre 2015

È veramente un buon cristiano – da L’avventura d’un povero cristiano

Fra Bartolomeo Non vorrei che il mio invito alla badia fosse mal compreso. Ho pensato che là sareste al sicuro; né il vescovo né il baglivo oserebbero molestarvi. Ma conosco e rispetto la vostra antipatia contro i grandi conventi.
Fra Ludovico       Ti ringrazio della franchezza. Possiamo parlarci chiaramente, senza scortesie e reticenze. Se siamo venuti fin qui, pur conoscendo le divergenze che esistono tra noi, è perché abbiamo molti punti in comune.
Fra Bartolomeo Vogliamo aiutarvi, ma solo nel modo che vi sia gradito. Niente di più. Fra Pietro una volta ci ha spiegato che le differenze tra noi, in fin dei conti, sono quelle che esistono tra San Benedetto e San Francesco.
Fra Ludovico       Purtroppo non è facile rimanere alla loro altezza. A udire questi due nomi, San Benedetto, San Francesco, uno sente piegarsi le ginocchia. I fondatori sono di solito delle aquile, i seguaci generalmente delle galline.
Fra Bartolomeo (ride a lungo e di cuore, col compiacimento di tutto il cerchio; poi
bruscamente si fa triste)   Sì, è vero, in ogni grande agglomerazione è inevitabile una certa tendenza al pollaio. Ma mi permetto di domandarti se credi che basti rimanere fuori …
Fra Ludovico       Oh no, non basta. Anche fuori, all’aria libera, ci si può addomesticare.
Fra Clementino   Alla maniera, per così dire, dei polli ruspanti. (A fra Bartolomeo) Parlaci di fra Pietro, dicci com’è. È severo, è triste? Ci sta agli scherzi?
Poiché fra Bartolomeo tace, gli altri insistono.
Fra Bernardo      Non vorremmo, quando lo incontreremo, rivolgergli domande inutili, è solo per questo.
Matteo       Forse già sapete che fra Bartolomeo è stato uno dei primi compagni di fra Pietro nella vita eremitica, una cinquantina d’anni fa, assieme ad Angelo di Caramanico, a Berardo di Guardiagrele, a Francesco d’Atri e a qualche altro. La nostra montagna sembrava allora come un’arnia di api, e il gruppetto di fra Pietro, in quel tempo, era un piccolo sciame che ogni tre o quattro anni si spostava da una contrada all’altra per sfuggire alla molestia dei curiosi e anche di quelli che chiedevano benedizioni o addirittura miracoli.
Lunga pausa, in attesa che parli fra Bartolomeo.
Fra Bartolomeo Non sta bene pronunziare panegirici per un uomo che, grazie a Dio, è ancora vivo. Che volete che vi dica? Forse basta questo: tutto sommato, egli è veramente un buon cristiano.

[I. Silone, L’avventura d’un povero cristiano, Oscar Mondadori, pp. 68-69]

martedì 15 settembre 2015

L’ultimo uomo

In una partita di calcio, se si parla di ultimo uomo è perché un giocatore per difendere la propria porta dall’attaccante avversario, ha commesso un fallo ed è stato espulso.

Chissà se anche fuori dallo stadio si può essere l’ultimo uomo, quello che, in pochissimo tempo, deve risolvere da solo una situazione critica?

Nella maggior parte dei casi, abbiamo semplicemente la sensazione di essere l’ultimo uomo. Ma se non ci difendiamo da questa sensazione, alla fine diventerà una convinzione e ci troveremo a vivere in continuo stato di emergenza.

Noi cristiani non siamo mai soli e, quindi, non siamo mai realmente l’ultimo uomo.
Allora, perché anche noi cristiani ci comportiamo come se lo fossimo?

Spesso siamo impazienti e pretendiamo di trovare soluzioni rapide o formule che ci facciano uscire con un click dall’emergenza, preferibilmente senza sacrificio, senza perderci il sonno, senza metterci il cuore, senza coinvolgerci più di tanto, senza una reale passione, senza una gradualità.

È pericoloso ragionare da ultimo uomo; significa procedere di emergenza in emergenza, di crisi in crisi, di problema in problema, senza prendersi il tempo giusto per elaborare una valida strategia. Significa lasciare che la squadra continui la partita in inferiorità numerica: l’attacco viene temporaneamente neutralizzato, ma tornerà a proporsi e bisognerà fronteggiarlo con un uomo in meno …

Sempre più spesso mi ritrovo a combattere con la tentazione di sentirmi l’ultimo uomo e vado in affanno, schiacciato dal peso di problemi che sarebbe meglio portare insieme a tutta la squadra. La vista si confonde a tal punto che persino un falsopiano mi sembra una ripida salita, impossibile da scalare.

Noi preti, soprattutto, non siamo l’ultimo uomo, anche se le situazioni che viviamo possono spingerci a pensare diversamente; anche se l’idea di essere l’ultimo uomo può lusingarci, perché ci fa sentire importanti, indispensabili, unici.

Se impariamo a custodire il tempo per la preghiera e la riflessione personale, se proviamo a stare un po’ in silenzio, se scacciamo il pensiero che tutto dipende da noi, ci accorgiamo che non siamo soli: insieme a noi c’è Gesù, ci sono i confratelli nel sacerdozio, c’è una comunità parrocchiale, c’è la possibilità di una relazione vera col prossimo. Una relazione che non ci dà l’illusione di aver risolto il problema, ma ci fa incamminare sulla via che, giorno per giorno, ci porterà ad affrontarlo meglio. [dGL]

venerdì 4 settembre 2015

Lettera ai genitori

Cari genitori,
siamo arrivati al termine del percorso di catechesi che per certi aspetti, nelle nostre due comunità, somiglia alla scuola dell’obbligo.

Scusate se mi esprimo così, ma in questi anni mi sono reso conto che la catechesi rischia di essere percepita come un’ora di scuola: forse perché è presentata male, forse perché il metodo è scolastico, forse perché si prendono le presenze, forse perché se non ci vado, poi il prete non mi fa fare la cresima (se non vado a scuola, non posso prendere il diploma), …

E mi fa bene scherzarci sopra, perché altrimenti ci sarebbe da rattristarsi a considerare come abbiamo ridotto la più bella avventura che potesse capitarci di vivere: l’incontro con Gesù, l’Amico.

Non posso negare che a volte sia un peso andare alla dottrina, che a volte sia davvero meglio restare a dormire o davanti al computer, che possa sembrare più produttivo impiegare il tempo praticando in modo serio qualche sport, ...

E dunque oggi sono contento che sia quasi finita la scuola!
Sono contento come uno scolaro che sta sistemando la borsa prima del suono dell’ultima campanella!

Sono contento, ma anche cosciente che presto bisognerà decidere come continuare.

A ottobre, se vorranno, i vostri figli potranno iscriversi all’Università.
Non ho da proporre niente meno di questo a persone che hanno la maturità giusta per affrontare da cristiani la vita.

Ho detto: «Se vorranno».
Vuol dire che liberamente sceglieranno se continuare a stare con Gesù per approfondire l’amicizia con Lui, o preferiranno mantenere da Lui le giuste distanze, perché Gesù non prenda troppe iniziative personali e gli trasformi radicalmente la vita.
Altrimenti può capitare che qualcuno scelga di diventare prete, o suora,…

Sappiate, però, che in ogni caso sarò felice di vedere loro e voi, sia che veniate a messa tutte le Domeniche, sia che veniate in chiesa saltuariamente o per qualche occasione particolare!

Sarò felice come quando mi capita di incontrare quei bambini che negli anni ho battezzato e li vedo grandicelli che muovono i primi passi, sostenuti dalle braccia sicure dei loro genitori.

Anche adesso, cari genitori, pur avendo avuto bravi catechisti e catechiste, e aver vissuto belle esperienze formative, i vostri figli non sanno tutto della vita. Hanno bisogno del vostro aiuto, della vostra guida sapiente per poter prendere confidenza col mondo. Non fategli mancare la vostra presenza. Ne hanno davvero bisogno!

Dal 13 settembre, non ci saranno più pagelle o premi per i più meritevoli.
Ci sarà la gratuità della risposta di ciascuno di loro e di voi alla gratuità di Dio che fin dall’inizio ci ama. E l’amore è sempre gratuito, è sempre senza condizioni, …

Buon cammino con Gesù, a voi e ai vostri figli!

don Gian Luca

mercoledì 19 agosto 2015

Un solo pallone, molti ricordi...

Fu un allegro vocio di ragazzi a riportarlo alla realtà.

Gridavano: «Palla!».

Il pallone si era fermato ai piedi dell’albero. Aprì gli occhi e vide un gruppetto di persone che gli facevano dei cenni. Gli stavano chiedendo di rilanciare la palla. Si alzò e diede un calcio al pallone mirando verso quella che doveva essere la porta. Il portiere non si fece cogliere impreparato e rispose al tiro con una presa sicura.

Il commissario si riaccomodò sulla panchina, soddisfatto: coi piedi se la cavava ancora abbastanza bene.

Ma invece di riprendere il filo dei suoi pensieri, cominciò a seguire la partita dei ragazzi e si accorse che c’erano anche un paio di educatori a bordo campo. Dovevano essere gli allenatori, o qualcosa di simile.
Forse erano ragazzi dell’oratorio parrocchiale.

«L’oratorio … Che bei ricordi!», pensò.

Da piccolo ci andava tutti i giorni per giocare con gli amici.
Lì aveva imparato a fare squadra, a non essere egoista, a condividere,…
Lì aveva scoperto l’importanza dell’amicizia, del sapersi divertire insieme, del rispetto per l’altro e per le cose dell’altro.

Il don li coinvolgeva nelle attività parrocchiali e loro erano contenti di aiutarlo.

Crescendo era diventato catechista.

Poi gli studi universitari lo avevano costretto a lasciare il paese. Tornava a casa solo nei periodi di vacanza e questo non gli permetteva più di seguire le attività parrocchiali.

Però aveva continuato ad andare a Messa tutte le Domeniche.
Era l’appuntamento con il Suo Amico Gesù e non vi avrebbe rinunciato per niente al mondo. E poi era l’occasione per stare in comunione con tutte le persone a lui care, vicine e lontane. [dGL]

venerdì 14 agosto 2015

Mulini a vento

Quando don Chisciotte e Sancio attraversarono il nostro paese, io ero poco più che ventenne. Affascinato dalle loro figure e da quello che avevo sentito raccontare di loro, decisi di seguirli e diventare un cavaliere errante. Non fu difficile procurarmi un’armatura, uno scudo e una lancia: il nostro paese era famoso per l’abbondanza di musei e ogni museo aveva il suo deposito. Lì trovai parecchie armature in buono stato. Ne scelsi una delle mie dimensioni e la provai. Ero un po’ impacciato nei movimenti, ma col passare del tempo mi sarei abituato.

Nella stalla di mio padre c’erano quattro cavalli. Sellai quello più vecchio e malandato: non era più adatto al lavoro nei campi e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza.

Ormai tutto era pronto per la partenza.
Salutai i miei familiari dicendo loro che abbracciavo la vita dei cavalieri erranti e che sarei andato in giro per il mondo a combattere le ingiustizie e a difendere i più deboli. Non mi mancava, infatti, il coraggio; né mancavano le imprese da affrontare e i mulini a vento da sconfiggere.

Di buon mattino mi presentai a don Chisciotte chiedendogli di poter condividere con lui la via: avrei messo al suo servizio il mio braccio. Mi accolse con un sorriso benevolo e, a causa della mia giovane età, fu generoso nelle raccomandazioni e nella presentazione dello stile di vita di un cavaliere errante.

Sono passati alcuni anni da quel primo incontro e di avventure ne abbiamo vissute tante. Nonostante le proteste di persone molto ragionevoli, che mi consigliavano di tornare sui miei passi e di smetterla di fare battaglie contro i mulini a vento, non ho mai pensato di tornare indietro. Anzi, stando con quel prode cavaliere, ho scoperto che normalmente i mulini a vento sono utili all’uomo: macinano il grano per fare la farina con cui si prepara il pane e tante altre cose buone. Quindi, non c’è motivo di combatterli.

In verità, non è contro quei mulini che carichiamo lancia in resta, ma contro quelli che, sotto le sembianze dei mulini a vento, nascondono giganti pericolosissimi. Non è facile riconoscerli: tutti gli uomini comuni vedono semplici mulini a vento e ci prendono per matti. Ma allo sguardo esperto di noi cavalieri, essi si rivelano per quello che sono. E, allora, bisogna fermarli a tutti i costi perché tra le loro macine finiscono idee, talenti, progetti, sogni e desideri di tante persone buone e tutto viene ridotto in polvere.

Combattendo contro i falsi mulini a vento, abbiamo spezzato innumerevoli lance e il più delle volte, sconfitti e ammaccati, ci siamo ritirati in alberghi e ostelli, cercando cure e ristoro. Ma questo è il nostro dovere di cavalieri erranti e per nulla al mondo ci ritireremo a vita privata finché nel braccio avremo la forza per liberare gli uomini dalla stretta dei giganti! [dGL]