martedì 18 dicembre 2012

Semplicemente innamorati

«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (Mt 1, 20). Quanto abbiamo bisogno anche noi dell’incoraggiamento dell’angelo! Eppure non bastano queste parole per farci dire «sì» alla volontà di Dio; occorre avere la fede di San Giuseppe, è necessario fare come lui: fidarci di Dio!


I segni, i miracoli, le visioni sorprendono e rassicurano per un momento il nostro animo in ricerca. Magari ci entusiasmano a tal punto che percorriamo di corsa lunghi tratti di cammino senza sentire alcuna fatica. Ma poi?

Poi, se ci fermiamo ai miracoli, rischiamo di diventare consumatori di esperienze religiose, di affetti, di emozioni, di sentimenti forti,… Saltiamo da un evento all’altro nella frenetica rincorsa dello straordinario, del sensazionale e perdiamo di vista la gratuità dell’amore di Dio. A lungo andare, presi dalla logica del consumo, possiamo anche arrivare a consumare amori, persone, Dio.

Il consumatore teme il «per sempre» o il «fino alla fine» dell’amore (Gv 13, 1), teme l’ordinario, il quotidiano; egli preferisce ciò che è episodico, preferisce sapere che in qualsiasi momento può scegliere qualcos’altro, qualcosa di nuovo, di più aggiornato, di più veloce, di più facile e appagante. Il consumatore non ama, usa.

San Giuseppe non è un consumatore, è un innamorato: ama Dio e ama Maria, ama la sua vocazione e si fida di Dio.

Occorre fede per restare fedeli all’amore anche dopo tanti anni di matrimonio o di consacrazione; occorre fede per lasciare la porta aperta a Dio che manda il Suo angelo a indicarci la via da seguire; occorre fede per sentirci sostenuti dalla Sua costante presenza; occorre fede per convertirci.

È Dio stesso a suscitare in noi questa fede quando si rivela, quando la Sua Parola ci raggiunge invitandoci all’ascolto. È così anche stamattina: «Ascoltatemi, casa di Giacobbe, tutto il resto della casa d’Israele; voi, portati da me fin dal seno materno, sorretti fin dal grembo. Fino alla vostra vecchiaia io sarò sempre lo stesso, io vi porterò fino alla canizie. Come ho già fatto, così io vi sosterrò, vi porterò e vi salverò» (Is 46, 3-4 – Ufficio delle Letture del 18 dicembre).

«… vi sosterrò, vi porterò e vi salverò» (Is 46, 4).
Mi fido di Te, Signore e non temo di dire: «Eccomi!»; non temo di credere nei sogni, non temo di amare e di rispondere a una vocazione che è per sempre!

Non ho paura, perché Tu sei con me! [dGL]

domenica 16 dicembre 2012

Giacomone - racconto di Giovanni Guareschi

Il vecchio Giacomone aveva bottega nella città bassa. Una stanzaccia con un banco da falegname, una stufetta di ghisa e una cassa.
Dentro la cassa, Giacomone teneva un materasso di crine che, la sera, cavava fuori e distendeva sul banco: e lì dormiva. Anche il mangiare non era un problema serio per Giacomone perché, con un pezzetto di pane e una crosta di formaggio, tirava avanti una giornata: il problema era il bere. Giacomone, infatti, aveva uno stomaco di quel tipo che usava tempo addietro: quando, cioè, c’era gente che riusciva a trovare dentro una pinta di vino il nutrimento necessario per vivere sani e svelti come un pesce. Forse perché, allora, non avevano ancora inventato le calorie, le proteine, le vitamine e le altre porcherie che complicano la vita d’oggigiorno.
Giacomone, quindi, finiva sbronzo la sua giornata: d’estate dormiva sulla prima panchina che gli capitava davanti. D’inverno dormiva sul banco. E, siccome il banco era lungo ma stretto e alto, Giacomone, agitandosi, correva il rischio di cascare per terra: allora, prima di chiudere gli occhi, si avvolgeva nel tabarro serrandone i lembi fra le ganasce della morsa. Così poteva rigirarsi senza il pericolo di sbattere la zucca contro i ciottoli del pavimento.
Giacomone accettava soltanto lavori di concetto: riparazioni di sedie, di cornici, di bigonci e roba del genere. La falegnameria pesante non l’interessava. E, per falegnameria pesante, egli intendeva ogni lavoro che implicasse l’uso della pialla, dello scalpello, della sega. Egli ammetteva soltanto l’uso della colla, della carta vetrata, del martello e del cacciavite. Anche perché non possedeva altri strumenti. Giacomone, però, trattava anche il ramo commerciale e, quando qualcuno voleva sbarazzarsi di qualche vecchio mobile, lo mandava a chiamare. Ma si trattava sempre di bagattelle da quattro soldi e c’era poco da stare allegri.
Un affare eccezionale gli capitò fra le mani quando morì la vecchia che abitava al primo piano della casa dirimpetto alla sua bottega. Aveva la casa zeppa di roba tenuta bene e toccò ogni cosa a un nipote che, prima ancora di entrare nella casa, si preoccupò di sapere dove avrebbe potuto vendere tutto e subito.

Giacomone si incaricò della faccenda e, in una settimana, riuscì a collocare la mercanzia. Alla fine, rimase nell’appartamento soltanto un gran Crocifisso di quasi un metro e mezzo con un Cristo di legno scolpito.
«E quello?» domandò l’erede a Giacomone indicandogli il Crocifisso.
«Credevo che lo teneste» rispose Giacomone.
«Non saprei dove metterlo» spiegò l’erede. «Vedete di darlo via. Pare molto antico. C’è il caso che sia una cosa di valore».
Giacomone aveva visto ben pochi Crocifissi in vita sua: comunque era pronto a giurare che quello era il più brutto Crocifisso dell’universo. Si caricò il crocione in spalla ma nessuno lo volea.
Tentò il giorno dopo e fu la stessa cosa. Allora arrivò fino a casa dell’erede e gli disse che se voleva vendere il Crocifisso si arrangiasse lui.
«Tenetevelo» rispose l’erede. «Io non voglio più saperne niente. Se vi va di regalarlo regalatelo. Se riuscirete a smerciarlo, meglio per voi: soldi vostri.»
Giacomone si tenne il Crocifisso in bottega e, il primo giorno che si trovò senza soldi, se lo caricò in spalla e andò in giro a offrirlo.
Girò fino a tardi e, prima di tornare in bottega, entrò nell’osteria del Moro. Appoggiò il Crocifisso al muro e, sedutosi a un tavolo, comandò un mezzo di vino rosso.
«Giacomone» gli rispose l’oste «dovete già pagarmi dodici mezzi. Pagate i dodici e poi vi porto il vino».
«Domani pago tutto» spiegò Giacomone. «Sono in parola con una signora di Borgo delle Colonne. È un Cristo antico, roba artistica, e saranno soldi grossi».
L’oste guardò il Cristo e si grattò perplesso la zucca: 
«Io non me ne intendo» borbottò «ma ho l’idea che un Cristo più brutto di quello lì non ci sia in tutto l’universo».
«La roba antica più è brutta e più è bella» rispose Giacomone. «Voi guardate le statue del Battistero e poi ditemi se sono più belle di questo Cristo».
L’oste portò il vino, e poi ne portò ancora perché Giacomone aveva una tale fame che avrebbe bevuto una damigiana di barbera.
L’osteria si riempì di gente e il povero Cristo sentì discorsi da far venire i capelli ricci a un’ brigadiere dei carabinieri pettinato all’umberta.
A mezzanotte Giacomone tornò in bottega, col suo Cristo in spalla e, siccome due o tre volte si trovò a un pelo dal cadere lungo disteso perché quel peso io sbilanciava, tirò fuori di sotto il vino che aveva nello stomaco delle bestemmie lunghe come racconti. 

La storia del Cristo si ripeté i giorni seguenti: e ogni sera Giacomone faceva tappa a un’osteria diversa e passò tutte le osterie dove era conosciuto.
Così continuò fino a quando, una notte, la pattuglia agguantò Giacomone che, col Cristo in spalla, navigava verso casa rollando come una nave sbattuta dalla burrasca. 
Portarono Giacomone in guardina e il Cristo, appoggiato a un muro della stanza del corpo di guardia, ebbe agio di ascoltare le spiritose storie che rallegrano di solito i questurini di servizio notturno.
La mattina Giacomone fu portato davanti al commissario che gli disse subito che non facesse lo stupido e spiegasse dove aveva rubato quel Crocifisso.
«Me l’hanno dato da vendere» affermò Giacomone e diede il nome e l’indirizzo del nipote della vecchia signora morta.
Lo rimisero in camera di sicurezza e, verso sera, lo tirarono fuori un’altra volta.
«Il Crocifisso è vostro» gli disse il commissario «e va bene. Però questo schifo deve finire. Quando andate all’osteria, lasciate a casa il Cristo. La prima volta che vi pesco ancora vi sbatto dentro».
Fu, quella, una triste sera per il Cristo: perché Giacomone se la prese con lui e gli disse roba da chiodi.
Si ubriacò senza Cristo ma, alle tre del mattino, si alzò, si caricò il Cristo in spalla e, raggiunta per vicoletti oscuri la periferia, si diede alla campagna.
«Vedrai se questa volta non riesco a rifilarti a qualche disgraziato di villano o di parroco!» disse Giacomone al Cristo.
Era autunno e incominciava a far fresco, la mattina: Giacomone s’era buttato addosso il tabarro e così, col grande Crocifisso in spalla e il passo affaticato, aveva l’aria di uno che viene da molto lontano.
All’alba, passò davanti a una casa isolata: una vecchia era nell’orto e, vedendo Giacomone con la croce in spalla, si segnò.
«Pellegrino!» disse la vecchia. «Volete una scodella di latte caldo?»
Giacomone si fermò.
«Andate a Roma?» s’informò la vecchia.
Giacomone fece cenno di sì con la testa.
«Da dove venite?»
«Friuli» disse Giacomone.
La vecchia allargò le braccia in atto di sgomento e gli ripeté che entrasse a bagnarsi le labbra con qualcosa.
Giacomone entrò. Il latte, a guardarlo, gli faceva nausea: poi lo assaggiò ed era buono. Mangiò mezza micca di pane fresco e continuò la sua strada.
Schivò le strade provinciali; prese scorciatoie attraverso i campi e batté le case isolate.
«Passo di qui perché la strada è piena di sassi e di polvere e ho i piedi che mi sanguinano e gli occhi che mi piangono» spiegava Giacomone quando traversava qualche aia. «E poi ho fatto il voto così. Vado a Roma in pellegrinaggio. Vengo dal Friuli».
Una scodella di vino e un pezzo di pane non glieli negava nessuno. Giacomone metteva il pane in saccoccia, beveva il vino e riprendeva la sua strada. Di notte smaltiva la sua sbronza sotto qualche capanna in mezzo ai campi.
In seguito era diventato più furbo: s’era procurato una specie di grossa borraccia da due litri. Non beveva il vino quando glielo davano; lo versava dentro la borraccia:
«Mi servirà stanotte se ho freddo o mi viene la debolezza» spiegava.
Poi, appena arrivato fuori tiro, si attaccava al collo della borraccia e pompava. Però faceva le cose per bene in modo da trovarsi la sera con la borraccia piena. Allora, quando si era procurato il ricovero, scolava la borraccia e perfezionava la sbornia.

Il freddo incominciò a farsi sentire, ma, quando Giacomone aveva fatto il pieno, era come se avesse un termosifone acceso dentro la pancia.
E via col suo povero Cristo in spalla.
«Vado a Roma, vengo dal Friuli» spiegava Giacomone. E quando era sborniato e traballava, la gente diceva:
«Poveretto, com’è stanco!».
E poi gli era cresciuta la barba e pareva un romito davvero.
Giacomone, che aveva la testa sulle spalle, aveva fatto in modo di gironzolare tutt’attorno alla città: ma l’uomo propone e il vino dispone. Così andò a finire che perdette la bussola e si trovò, un bel giorno, a camminare su una strada che non finiva mai di andare in su.
Voleva tornare indietro e rimanere al piano: poi pensò che gli conveniva approfittare di quelle giornate ancora di bel tempo per passare il monte. Di là avrebbe trovato il mare e, al mare, freddo che sia, fa sempre caldo.
Camminò passando da una sbronza all’altra, sempre evitando la strada perché aveva paura di imbattersi nei carabinieri: prendeva i sentieri e questo gli permetteva di battere le case isolate.
L’ultima sbronza fu straordinaria perché capitò in una casa dove si faceva un banchetto di nozze e lo rimpinzarono di mangiare e di vino fino agli occhi.
Oramai era quasi arrivato al passo. La notte dormì in una baita e, la mattina dopo si svegliò tardi, verso il mezzogiorno: affacciato alla porta della baracca si trovò in mezzo a un deserto bianco con mezza gamba di neve. E continuava a nevicare.
“Se mi fermo qui rimango bloccato e crepo di fame o di freddo” pensò Giacomone e, caricatosi il Cristo in spalla, si mise in cammino.
Secondo i suoi conti, dopo un’ora avrebbe dovuto arrivare a un certo paese. Aveva ancora la testa annebbiata per il gran vino bevuto il giorno prima, e poi la neve fa perdere l’orizzonte.
Si trovò, sul tardo pomeriggio, sperduto fra la neve. E continuava a nevicare.
Si fermò al riparo di un grosso sasso. La sbornia gli era passata completamente. Non aveva mai avuto il cervello così pulito.
Si guardò attorno e non c’era che neve, e neve veniva giù dal cielo. Guardò il Cristo appoggiato alla roccia.
«In che pasticcio vi ho messo, Gesù» disse. «E siete tutto nudo...».
Giacomone spazzò via col fazzoletto la neve che si era appiccicata sul Crocifisso. Poi si cavò il tabarro e, con esso, coperse il Cristo.
Il giorno dopo trovarono Giacomone che dormiva il suo eterno sonno, rannicchiato ai piedi del Cristo. E la gente non capiva come mai Giacomone si fosse tolto il tabarro per coprire il Cristo.
Il vecchio prete del paese rimase a lungo a guardare quella strana faccenda. Poi fece seppellire Giacomone nel piccolo cimitero del paesino e fece incidere sulla pietra queste parole:

Qui giace un cristiano
e non sappiamo il suo nome
ma Dio lo sa
perché è scritto nel libro dei Beati.

giovedì 6 dicembre 2012

Agli aderenti all’Azione Cattolica della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto M.

Caro amico,

sono don Gian Luca, l’assistente diocesano dell’Azione Cattolica dei Ragazzi, ma in questa occasione vorrei uscire dai confini dell’articolazione (ACR) e rivolgermi a te come un compagno di viaggio, uno che si avvicina e vuole soltanto camminare un po’ con te, andare al tuo passo, ascoltare la tua voce, il tuo respiro, il tuo cuore.

Forse una lettera non è lo strumento migliore, però potrebbe essere l’occasione per iniziare un dialogo e conoscerci.

Abbiamo da poco cominciato l’Avvento, un tempo forte che ogni anno ci richiama alla vigilanza mantenendo viva la nostra speranza e la nostra fede nel Signore: «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21, 28).

Nelle mie orecchie risuonano ancora queste parole di Gesù ascoltate Domenica (I Domenica di Avvento, anno C) e mi fanno pensare all’uomo che, immerso in uno scenario apocalittico, riesce a risollevarsi e ad alzare il capo. Beato quell’uomo a cui il cuore ricorderà in quel momento le parole del Signore! Ci vuole fede, ci vuole perseveranza, ci vogliono l’umiltà e la fiducia del discepolo, ci vuole l’obbedienza alla volontà di Dio, ci vuole una grande attenzione alla storia e a quanto accade attorno a noi. Proprio di questo vorrei parlarti!

A volte ci lasciamo prendere dal desiderio di qualcosa che trasformi, come per magia, la nostra esistenza e, nell’attesa di questo miracolo, ci sediamo e sopravviviamo rinunciando a fare il bene – «Perché non sono ancora pronto!», a camminare – «Perché non ce la faccio!», a convertirci – «Perché devono cambiare gli altri, non io!», a pregare – «Perché non me la sento!», ad amare – «Perché se non sto attento, potrei soffrire!».

Ma così ci dimentichiamo che Gesù è vivo, è sempre presente in mezzo a noi e possiamo incontrarlo sulle nostre strade, quelle che distrattamente percorriamo tutti i giorni, quelle che ormai conosciamo a memoria!

L’incontro con Gesù davvero cambia la vita; non perché muta la situazione esterna, scompaiono i problemi e tutto si risolve, ma perché Egli trasfigura la storia e ce la rivela come un’occasione per amare.

Leggendo un piccolo libro del cardinal Van Thuan (François-Xavier Nguyen Van Thuan, Cinque pani e due pesci, San Paolo), ho trovato un paragrafo che vorrei condividere con te: «Gli apostoli avrebbero voluto scegliere la via facile: “Signore, lascia andare la folla, così che possa procurarsi il cibo…”. Ma Gesù vuole agire nel momento presente: “Date loro da mangiare voi stessi” (Lc 9, 13). Sulla croce, quando il ladrone gli ha detto: “Gesù, ricordati di me, quando verrai nel tuo regno”, egli ha risposto: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23, 42-43). Nella parola “oggi” sentiamo tutto il perdono, tutto l’amore di Gesù. Padre Massimiliano Kolbe viveva questo radicalismo quando ripeteva ai suoi novizi: “Tutto, assolutamente, senza condizione”. Ho sentito Dom Helder Camara dire: “La vita è imparare ad amare”. Una volta, Madre Teresa di Calcutta mi ha scritto: “L’importante non è il numero di azioni che facciamo, ma l’intensità di amore che mettiamo in ogni azione”. Come attingere questa intensità di amore nel momento presente? Penso che devo vivere ogni giorno, ogni minuto come l’ultimo della mia vita. Lasciare tutto ciò che è accessorio, concentrarmi soltanto sull’essenziale. Ciascuna parola, ciascun gesto, ciascuna telefonata, ciascuna decisione è la cosa più bella della mia vita, riservo a tutti il mio amore, il mio sorriso; ho paura di perdere un secondo, vivendo senza senso… Ho scritto nel mio libro “Il cammino della speranza”: “Per te, il momento più bello è il momento presente (cfr. Mt 6, 34; Gc 4, 13-15). Vivilo appieno nell’amore di Dio. La tua vita sarà meravigliosamente bella se sarà come un cristallo formato da milioni di tali momenti. Vedi come è facile?” (CS, n. 997)» (Cinque pani e due pesci, pp. 14-15).

Il nostro essere cristiani ci chiede di essere testimoni nel quotidiano e negli ambienti in cui viviamo. Testimoni non di una struttura, né di un programma, né di alcune idee o intuizioni; siamo chiamati a essere testimoni di Gesù. Questo nostro appartenere a Lui va comunicato ai fratelli con il sorriso e con l’entusiasmo di chi vuole condividere il tesoro che gli è stato donato. Non disperdiamo, dunque, le nostre forze nell’inseguire di volta in volta il grande evento o nell’elaborare chissà quale progetto. Cerchiamo, invece, di cogliere nell’OGGI il passaggio del Signore, facendo attenzione a ogni persona che incontriamo.

Convinciamoci che «ciascuna parola, ciascun gesto, ciascuna telefonata, ciascuna decisione è la cosa più bella» della nostra vita (cfr. Cinque pani e due pesci, p. 15)!

La vita è il tempo propizio in cui dobbiamo far fruttare i talenti che il Signore gratuitamente ci ha donato!

Di fronte a una situazione che non ci piace o ci fa soffrire, potremmo essere presi dalla tentazione di abbandonare tutto: «Ora mi metto in stand-by e poi il prossimo anno riprenderò il cammino…»; oppure: «Preferisco farmi da parte in attesa di tempi migliori…»; oppure: «In questo triennio non mi sembra che ci siano le condizioni giuste per un mio impegno, ma quando le cose cambieranno, tornerò con tutto il mio entusiasmo...».

Ma, hai mai visto un allenatore che, dopo una serie di risultati negativi, dice alla squadra e ai tifosi: «Per quest’anno tiriamo i remi in barca in attesa della prossima stagione»? Se facesse una tale dichiarazione, sprecherebbe il tempo e le risorse che ha e non potrebbe nemmeno porre le basi per un futuro migliore.

Così se non ci saremo impegnati al massimo nel testimoniare il nostro essere cristiani, nel metterci al servizio di Dio e dell’uomo, anche nella nostra Associazione potremmo ritrovarci a constatare con tanta tristezza e amarezza che non siamo stati capaci di cogliere le occasioni e di leggere i segni dei tempi.

Se non siamo vigilanti, rischiamo di lasciarci andare a giudizi, critiche, polemiche, sospetti, chiacchiere,… e perdiamo di vista l’altro che ci sta di fronte e ci chiede di essere riconosciuto.

Il cristiano non è un moralista con il giudizio pronto e infallibile su tutto e su tutti. Il cristiano è colui che si fa prossimo come Gesù (Lc 10, 29-37); è colui che entra nella casa di Zaccheo perché Gesù vi è entrato prima di lui (Lc 19, 1-9); è colui che siede a tavola con i peccatori (Lc 5, 29-32), va a cercare la pecorella smarrita (Lc 15, 4-7), abbraccia il figlio che torna a casa e fa festa con lui (Lc 15, 11-32); il cristiano è colui che sta ai piedi di Gesù e lo ascolta (Lc 10, 38-42), colui che impara da Gesù a perdonare (Lc 23, 33-34).

Durante la Veglia dell’Adesione (23 novembre 2012), ci è stato consegnato un testo di don Tonino Bello che dice così: «Ricordatevi che l’Azione Cattolica trova il suo punto di massima espressione non quando siete nelle pareti della vostra parrocchia: è il mondo lo spazio in cui vi giocate la vostra identità. Quale mondo? Quello della scuola dove state, della fabbrica dove lavorate, dell’ufficio, dei campi: e poi gli ambienti, la spiaggia quest’estate, il bar questa sera, la villa, la piazza… E se vi dicono che afferrate le nuvole, che battete l’aria, che non siete pratici, prendetelo come un complimento. Non fate riduzioni sui sogni. Non praticate sconti sull’utopia. Se dentro vi canta un grande amore per Gesù Cristo e vi date da fare per vivere il Vangelo, la gente si chiederà: «Ma che cosa si cela negli occhi così pieni di stupore di costoro?» (Dall’omelia del Vescovo Tonino Bello alla I assemblea diocesana dell’AC, Molfetta 19 Febbraio 1989).

Perché non prendiamo sul serio questo invito e lasciamo cantare il nostro grande amore per Gesù? Il canto è dono, armonia, emozione, comunicazione di quel che siamo e viviamo. Il canto coinvolge, unisce, rallegra!

Facciamo cantare la nostra vita sulle note del Vangelo e custodiamo lo stupore e la meraviglia per l’amore del Signore! E abbandoniamo una volta per tutte quel desiderio di affermazione personale, di realizzazione, di successo che può trasformarci in rumorosi uomini di divisione. Sia il Signore a guidare e ispirare il nostro agire!

Caro amico,
non vorrei che queste parole suonassero ai tuoi orecchi come una predica; non è questa la mia intenzione. A pochi giorni dalla Festa dell’adesione all’Azione Cattolica, vorrei solo comunicarti la gioia che la fede mi dona e invitarti a rinnovare il tuo desiderio di seguire il Signore. Segui il Signore nell’oggi, afferrando le occasioni che si presentano ogni giorno per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario! (cfr. Cinque pani e due pesci, p. 17).

Ora ti saluto, rendendomi disponibile a incontrarti o a rispondere a eventuali tue domande di chiarimento!

Ti auguro di camminare sempre con Gesù!

Fraternamente,
don Gian Luca